“SONO STATO IL VESCOVO DEL DIALOGO” INTERVISTA ESCLUSIVA A MONS. GIOVANNI BENEDETTI
Quando incontro Mons. Giovanni Benedetti, a pochi giorni dal centesimo compleanno, è circondato di affetto e premura. Ci sono Miro e sua moglie, la coppia che se ne prende cura quotidianamente con grande amore; c’è Isella, sua allieva prima e fedele collaboratrice ora; c’è Michele, il nipote con cui dibatte di filosofia e dialoga in francese, la lingua della “nouvelle theologie” che tanto lo ha appassionato in gioventù. È nel suo studio all’ultimo piano di Villa Pasquini, completamente circondato di libri e di appunti, segno di un intelletto sveglio e di una mente che si mantiene lucida.
Eccellenza, come si sente mentre taglia il traguardo dei cento anni?
Bene, saranno anche cento, ma non mi pesano. Mi sento ancora giovane. Davvero sembra che io abbia cento anni (ride)?
No – rispondo, davvero convinto dall’ironia e dalla serenità che il tempo non ha saputo scalfire -, facciamo che non gliene darei più di ottantacinque. Però ha un lungo ministero e una vita piena di cose belle da raccontare. Qual è il più bel ricordo che ha del suo episcopato?
La gente, il rapporto con le persone, da un punto di vista religioso ma anche sociale. Certo, un vescovo non fa politica, ma la sua influenza nella società è importante per tutelare ogni uomo e ogni donna, specialmente i lavoratori. Ricordo, ad esempio, quando cercammo di mantenere aperto lo zuccherificio, senza riuscirci…
In effetti, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 non era facile per un vescovo dialogare con un’amministrazione di sinistra.
Non è mai stato un problema per me – mi risponde con serenità e chiarezza-: il vescovo non fa politica ma è comunque presente nella vita civile. Davanti non ha mai avversari politici, ma uomini e donne con cui dialogare, se lo desiderano. Ad esempio l’obiettivo del lavoro, della dignità per tutti gli uomini, è un obiettivo comune, dove le idee morali del vescovo sono anche profondamente sociali. Poi c’è il discorso dell’educazione dei laici alla politica: è il loro campo.
Ecco, l’educazione dei laici: ero bambino quando lei era vescovo di Foligno, ma ricordo che si stava svolgendo il Sinodo Diocesano. Direi che si è trattato del punto di arrivo e della vetta di un episcopato tutto ispirato al “camminare insieme”.
“Camminare insieme” è stato un po’ il mio motto. Del resto, “sinodo” significa proprio “strada percorsa insieme”, vivere insieme l’esperienza religiosa, far dialogare la vita civile e la vita religiosa. Ho cercato sempre di collaborare con tutti, e ho trovato tanti bravi collaboratori: Betori e Buoncristiani che sono diventati vescovi, ma anche i preti, con cui sono sempre andato d’accordo, e tanti laici.
Lei, spellano che ha vissuto tutta la sua vita a Foligno, è diventato vescovo della sua diocesi. Com’è diventare padri della Chiesa di cui si è figli?
Per me è stato bello essere vescovo di Foligno, e le relazioni che avevo non mi hanno creato difficoltà, anzi, si sono trasformate in preziose collaborazioni.
Da dove le deriva questo carattere così familiare?
Sono stato insegnante, e forse questo mi ha aiutato a tenere sempre presente chi ho davanti. A chi annuncio il Vangelo? Cosa pensa la gente di me? Non posso fare un discorso calato dall’alto, devo entrare nella mentalità delle persone, parlare con la gente, farmi comprendere. E devo arrivare a capire che chi ho davanti non è un estraneo: è una persona del cui vissuto concreto devo tener conto. Poi mi ha formato anche l’attività di giornalista. Ho diretto la Gazzetta di Foligno e La Voce e anche questo mi ha insegnato ad inserirmi nell’ambiente, a “parlare con” anziché “parlare a”. Tu scrivi sulla Gazzetta, no? La leggo sempre attentamente. Se c’è una raccomandazione che posso fare alla vostra redazione, è quella di parlare con il popolo, fare molta attenzione alla vita vissuta e ai problemi sociali.
Non le nascondo che da un teologo del suo livello ci si attenderebbe una figura più incline al pensiero astratto.
Devo sempre ricordarmi che il maestro non sono io: è Gesù Cristo. Anzi, Gesù è la vera teologia, perché in lui Dio si è fatto carne, in lui Dio ha parlato. Se non si ricorda questo, c’è il rischio dell’astrazione. È come nelle omelie: può succedere, sai, di sentire tanti bei discorsi che volano sopra le teste della gente ma senza mai toccare il cuore delle persone, senza mai farsi dialogo diretto.
Mi congedo dando appuntamento a Mons. Benedetti per il giorno del suo compleanno, alla Messa di ringraziamento al Signore per il suo ministero. So quanto ami restare in disparte e quanto eviti di occupare la scena. Non vuole applausi, soprattutto se sanno di adulazione. Dice che verrà solo perché c’è il Cardinal Betori – “è bravo Peppino, l’ho seguito fin dal Seminario, e adesso che sta a Firenze ed è cardinale è ancora umile e fa tanto bene!” – e perché il Vescovo Gualtiero gli ha organizzato una bella festa. E così, vinta la ritrosia, si sottopone al rito degli auguri, con evidente compiacimento e con gioia piena, pari a quella dei folignati che ringraziano il Signore per i cento anni del loro pastore.
FABIO MASSIMO MATTONI