Il difficile viene adesso
L’esito del referendum costituzionale pone due questioni di fondo. La prima riguarda l’interpretazione del voto. La seconda quello che ci aspetta adesso. Sulla prima questione ci sono importanti dati spia: hanno votato decisamente per il no i giovani (specie quelli da 18 a 34 anni) e gli elettori meridionali (in singolare simmetria con il voto umbro, diviso tra il sì di Perugia e il netto no di Terni); si è espressa per il sì la maggioranza degli italiani all’estero. Tali dati ci permettono di individuare le reali motivazioni dell’affermazione del no. L’alta affluenza alle urne ha indubbiamente testimoniato che la base popolare abbia voluto contare di più rispetto alle élites (anche se la democrazia si può declinare in modi diversi). Ma, nel merito, si è trattato soprattutto di un voto di protesta e solo in subordine di un’espressione di fedeltà alla vecchia Costituzione (che magari per qualcuno ha costituito essenzialmente un appiglio contro la paura del cambiamento). La protesta ha il suo fondamento nella mancanza di prospettive occupazionali per i giovani, specie del sud, nei nuovi disoccupati di tutto il paese, in coloro che si sono sentiti frodati dalle banche fallite. A tale trend poco hanno aggiunto le spiegazioni dei “professori”, che si sono limitati a rinforzare tecnicamente le ragioni degli uni e degli altri, o lo spirito di vendetta della vecchia classe politica esautorata (alla D’Alema per intenderci). Piuttosto il voto degli italiani all’estero ha mostrato come venisse valutata positivamente la riforma in un’ottica esterna.
Alla fine dei giochi, Renzi ha certamente perduto la sua battaglia sulla riforma della Costituzione, ma da un altro punto di vista non è affatto uscito indebolito. Infatti quel 40,9% di sì è un tesoretto quasi tutto suo (salvo la piccola appendice dei centristi), mentre il 59,1% di no va diviso tra almeno sei forze (Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, Movimento 5 Stelle, Sinistra Italiana e Dissidenti del Pd), con i 5 Stelle nettamente prevalenti.
La seconda questione è molto più complicata della prima. Il problema, più che subito, esploderà a primavera quando verosimilmente si andrà alle elezioni politiche. A breve dovranno essere approvate la legge di stabilità e la nuova legge elettorale. Poi saranno necessarie almeno tre ricuciture, sempre che non si verifichino spaccature definitive: ricucire tra gli italiani del no e quelli del sì (almeno cercando di superare la penosa fase degli insulti reciproci), ricucire gli elettori e le forze del centro-destra, ricucire (o fare chiarezza) nel Pd e nel resto della sinistra. Infine c’è la prevedibile ascesa del Movimento 5 Stelle. Formare un governo in queste condizioni sarà terribilmente difficile. Perché o si dovrà ricorrere a una “grande coalizione all’italiana” (con faticosissimi compromessi e un ipotizzabile aumento dello scontento), o andrà al potere il Movimento 5 Stelle, che già a Roma non sta mostrando il meglio di sé. Un conto è infatti schierarsi “contro”, un conto decidere puntualmente il da farsi. Perché per dire no si può gridare “scegliete con la pancia e non con la testa” (Grillo dixit), ma per governare occorre usare la testa e non la pancia.
Come è già avvenuto negli ultimi anni, a decidere saranno due fattori esterni alla politica: le mosse dei mercati finanziari internazionali e l’impegno per la ripresa del mondo imprenditoriale italiano. Non vorremmo che questo mix di fattori ad altissimo rischio ci facesse rimpiangere l’occasione mancata del referendum del 4 dicembre.
ROBERTO SEGATORI