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Una ricostruzione realistica

Tra le soluzioni ipotizzate per la ricostruzione post-terremoto dei piccoli nuclei della Valnerina circola con insistenza l’idea di “ricostruire le case dov’erano”. Quest’idea ha costituito uno dei tre criteri di fondo della ricostruzione dopo gli eventi umbro-marchigiani del 1997. A suo tempo si pose infatti l’obiettivo di “ricostruire gli edifici mantenendo inalterata la trama del tessuto originale”. Gli altri due criteri furono quello della “sussidiarietà”, ovvero di procedere ai lavori con il massimo del decentramento e della flessibilità, coinvolgendo direttamente i Comuni e i proprietari, e quello della “massima trasparenza”, attivando un Osservatorio regionale che vigilasse per evitare truffe e sprechi. Come ho mostrato analiticamente in un saggio pubblicato in occasione del decennale, si è trattato di una ricostruzione tutto sommato positiva, pur con qualche ritardo di troppo (Nocera Umbra) e qualche fenomeno di lentezza dovuta a una piccola minoranza di ditte inaffidabili e all’accaparramento di commesse da parte di alcuni professionisti.

Il modello umbro piacque talmente che la Regione Emilia-Romagna tenne a lungo sul suo sito il mio saggio, e successivamente chiese in prestito l’architetto Alfiero Moretti per sovrintendere nel 2012 alla parte tecnica del post-terremoto della pianura padano-emiliana.

Ciò nonostante, quando io o il professor Bruno Bracalente – Commissario straordinario per la ricostruzione in Umbria nel 1997 – veniamo invitati a pronunciarci sulle diverse situazioni post-sisma, finiamo con l’adottare una sostanziale cautela. Sul terremoto del 2009 dell’Aquila e sulla ricostruzione della città, ad esempio, pur non condividendo il metodo scelto dal governo dell’epoca (impedimento autoritario a che i cittadini partecipassero al processo di rinascita, un “piano case” fatto di edifici rivelatisi presto obsoleti se non fatiscenti, gravi episodi di corruzione), la tipicità del caso non sembrava né sembra permettere ricette facili. Chi va all’Aquila ancora oggi rimane colpito dalla dimensione e dalla notevole interdipendenza delle strutture edificate, per cui si rende conto che non si tratta della stessa cosa del tessuto abitativo delle colline umbre o della pianura padana.

Tutto ciò per dire che non è possibile ipotizzare ora con assoluta certezza che i borghi umbri, marchigiani e laziali devastati dal terremoto dell’ottobre 2016, prevedibilmente non ancora concluso per gli sciami sismici susseguenti, debbano essere ricostruiti esattamente dov’erano.

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che per tutelare dalle continue e pericolose minacce sismiche le popolazioni della California e del Giappone, le autorità pubbliche e gli ingegneri delle costruzioni abbiano adottato tecniche edilizie particolarmente avanzate per flessibilità, leggerezza e sicurezza. Ma, realisticamente, almeno per lo stato delle conoscenze della comunità scientifica dei geologi, nei territori appenninici italiani rimane tutt’oggi un rapporto troppo squilibrato tra le previsioni sull’affidabilità del ricostruito e i costi necessari per portare a termine tali operazioni.

Emotivamente è difficile restare indifferenti al grido d’amore di un nursino cui il terremoto ha distrutto la casa: “non voglio andare in un albergo sul Lago Trasimeno, non voglio lasciare sola Norcia!”. Nessuno vuole lasciare sola Norcia. Poi però ci sono tanti nuclei minori rasi al suolo. E qui, riconoscendo sempre agli abitanti un concorso nelle decisioni finali, è forse il caso di cominciare a chiedersi dove sia più realistico ricostruire quei loro (nostri) paesi.

ROBERTO SEGATORI

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