Multe e scomuniche alle donne e uomini che ostentavano ricchezza: altro che burkini!
Se in questo terzo millennio si discute animatamente, se sia il caso di procedere o meno a severi provvedimenti, in merito all’utilizzo del velo o del burkini, già nel XV e XVI secolo esisteva a Foligno, poi allargata a tutto lo Stato Pontificio, una specie di inquisizione su quello che oggi chiamiamo il look delle donne e, in alcuni casi anche degli uomini. E le pene erano salatissime: multe e, in alcuni casi, anche la scomunica. Questa incredibile storia è stata rispolverata, dall’Archivio di Stato di Foligno, dalla professoressa Anna Maria Rodante che l’ha raccontata a palazzo Candiotti per Segni Barocchi. “L’11 gennaio del 1557, a Foligno, – narra la professoressa Rodante – un anonimo cittadino denunciava ai Magnifici signori e consiglieri ornatissimi della città, un nutrito gruppo di donne, ben identificabili, colpevoli di presentarsi in pubblico con abbigliamenti e accessori troppo eleganti e vistosi, non adeguati al loro grado sociale. L’indignato cittadino, nella sua denuncia, dopo aver chiamato in causa le avversità inviate da Dio a causa di errori e peccati commessi dalla comunità, proponeva una multa di 50 scudi ‘perché è bene che queste superbe che non si contentano di vivere secondo il grado loro, siano qualche poco smagrate et inoltre si cavaranno da peccato…’ Non solo nella sua lettera ne fa pure i nomi: ‘la nora di Crisanti de Mausse, scuffia d’oro et collane; la nora di Casciolo, il medesimo; le nore de Ruscio pizzicarolo, la nora di Giulio Ciavattino, scuffia d’oro e la moglie di mastro Cecco sarto. Superbe che non si contentano di vivere secondo il loro grado’. Non è dato sapere – sottolinea la Rodante – se poi la multa sia stata applicata o meno perché la documentazione si ferma qui”.
Per frenare, dunque questi sperperi, erano state istituite le leggi ‘Suntuarie’ che cercavano di frenare le spese eccessive per le manifestazioni e per le apparizioni in pubblico. A Foligno, questo genere di legislatura ebbe una vita alquanto lunga e le disposizioni, o punizioni che dir si voglia, furono quasi duecento fino al XVII secolo. L’indignato e anonimo cittadino registrava in una ‘lettera-apodissa’ la sua denuncia e la poneva nel ‘tamburo’ posto davanti alla cattedrale da dove, con una procedura precisa, veniva tirata fuori dagli ufficiali esecutori addetti per far sì che la lettera completasse il suo circuito. Con le disposizioni ‘Suntuarie’ e con i più dettagliati ‘Capitula’ successivi si cercò di dare ordine e decenza alla vanità e alle spese ‘pazze’. Per concludere ecco la premessa dei ‘Capitula’ che il Consiglio centumvirale volle. ‘Al nome de Dio amen. Ogni cosa che facemo o parole o opere tutte devemo nel nome dello Altissimo fare sempre referendo grate alla sua Maiestà. Tra li altri peccati et vanità che provocano contra delli populi la ira dello immortale Dio si trova che li vani et superflui et luxuriosi ornamenti delli homini et donne grandemente concitano et commovono ipso eterno Dio ad sdegnarse verso li soi popoli et anche, per tali luxuriosi ornamenti, et substantie et patrimonii et exercitii per iudicio occulto de Dio mancano et attenuanse, donde ne nasce et sequita universale et particolare delle repubbliche extrema miseria, calamità et povertà…’.
ROBERTO DI MEO