Nel governo della CEI per servire la Chiesa
S.E. mons. Gualtiero Sigismondi è stato eletto alla presidenza della Commissione Episcopale per il clero e la vita consacrata e diventa membro del Consiglio Episcopale Permanente della CEI
Un incarico di 5 anni non rinnovabile. Si percepisce immediatamente la filosofia che ispira l’organizzazione ecclesiale: si è liberi di scegliere e di governare quando non si ambisce alla rielezione. Ma la Chiesa come sceglie i suoi servitori? Dal racconto di mons. Sigismondi si comprende che non ci sono accordi sottobanco che tanto stuzzicano la fantasia dei romanzieri e nemmeno la ricerca di supposti avanzamenti di carriera, ma l’adesione responsabile e serena al disegno che Dio propone.
Eccellenza, ci racconti come ha vissuto i giorni che hanno preceduto l’elezione di mercoledì scorso.
Nella cappella della casa in cui ero ospite c’era questa scritta: “Facere voluntatem tuam Deus meus me delectat” (“Fare la Tua volontà, mio Dio, mi rallegra” – ndr). Ignaro di tutto, ho custodito questa frase nella preghiera e mi è tornata utile nel momento in cui mi sono reso conto che non potevo più scappare. Il Signore lunedì me l’ha messa davanti agli occhi e me ne ha dato spiegazione due giorni dopo.
Ci aiuti a capire meglio che cosa significa e in che cosa consiste questo nuovo servizio che è chiamato a svolgere per i prossimi 5 anni.
Mi piace il termine servizio, perché è con questo spirito che ho accolto la sorpresa dell’elezione. La Commissione Episcopale che presiedo si dovrà occupare della riforma del clero. Non c’è una ricetta, ma un filo conduttore che può aiutare la Commissione a individuare come tradurre questo compito di riforma: la cura della vita interiore è la prima attività pastorale, la più importante. Sarà questo il tema della prossima Assemblea generale della CEI del 2016, perché si sta prendendo consapevolezza che non c’è riforma della Chiesa se non a partire dalla riforma del clero. È ovvio che parlare dei preti significa anche far riferimento ai seminari, perché è lì il punto di partenza della formazione permanente: non si possono separare formazione iniziale e formazione permanente.
E quanto contribuisce uno studio rigoroso alla formazione e all’ascesi dei seminaristi?
La debolezza della formazione spirituale e teologica fa la debolezza della risposta vocazionale. Quando già dagli anni di seminario si prega e si studia poco, ci sono tutti gli ingredienti per una risposta vocazionale debole, che si tradurrà in un ministero privo di entusiasmo, che nella migliore delle ipotesi conoscerà la fatica dello spendersi ma non raggiungerà l’orizzonte del donarsi. Preghiera e studio hanno bisogno dello stesso ingrediente: il silenzio dell’ascolto. La qualità del seminario incide sulla qualità del presbiterio: le questioni che talvolta affliggono le cronache hanno spesso una radice nella formazione iniziale.
La formazione del clero è dunque importante, è necessario che sia anche permanente?
È fondamentale per tutte le stagioni della vita presbiterale. Grazie alla formazione permanente i giovani preti vengono aiutati a entrare gradualmente nel ministero; i preti più maturi vengono stimolati a rendersi conto di avere sempre qualcosa da imparare; i preti anziani vengono sollecitati a non chiudersi, a non ritirarsi, a non farsi da parte. Uno dei punti nodali della formazione permanente è quello di aiutare i preti a scoprire nella vita fraterna una forza trainante per la vita pastorale. Le cosiddette unità pastorali sono un’occasione storica da questo punto di vista: non servono a ridisegnare la geografia pastorale di una diocesi, ma a creare l’occasione per cominciare a mettere in rete i preti che operano in uno stesso territorio.
Papa Francesco ha dato un nuovo impulso alla vita consacrata: tutto ciò può rappresentare un valore aggiunto per sensibilizzare alla vocazione religiosa?
Papa Francesco esorta preti e consacrati a ravvivare il dono ricevuto, per non correre il serio pericolo di diventare inutili e insignificanti. Il Papa con i suoi gesti che precedono, accompagnano e seguono le sue parole, sta richiamando l’attenzione di tutti i consacrati sulla radicalità evangelica. Secondo Papa Francesco ogni consacrato deve sapersi chinare davanti alla carne del povero e deve saper piegare le ginocchia stando in silenzio dinanzi al Tabernacolo.
I percorsi vocazionali sono tempi di discernimento: è giunto il momento di far dialogare la pastorale giovanile, quella vocazionale e quella universitaria?
Penso proprio di sì: la pastorale familiare è la sorgente, quella giovanile è l’alveo e quella vocazionale è il delta. È necessario intercettare i giovani frequentando le loro domande: possono venir fuori equivoci, ma anche utili provocazioni. Oggi si mettono in contrapposizione ragione e fede e soprattutto scienza e fede. Occorre aiutare i giovani a riconoscere che la fede non entra in collisione con la ragione e che non tutto ciò che si può fare e che si sa fare si debba anche fare (es.: ciò che la tecnica ti consente di fare non necessariamente deve essere fatto). Questo è un terreno di dialogo; un altro spazio di incontro è aiutare i giovani a rendersi conto che i contatti, molto usati nei social network, non sono relazioni. La fede stessa è una relazione e non un contatto!
Quale o quali delle cinque vie del prossimo Convegno di Firenze (uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare) sono particolarmente importanti per il clero e la vita consacrata?
Senza dubbio “trasfigurare”. Trasfigurare significa salire sul Tabor ove il Padre ha fatto sentire la sua voce: “Questo è il mio Figlio prediletto, ascoltatelo!”. In una scena che è tutta luce il Padre invita i discepoli di Gesù non ad osservare ma ad ascoltare. Pertanto, ogni prete sarà capace di parlare nella misura in cui avrà saputo frequentare le domande di Dio e quelle della gente. C’è un’espressione bellissima nell’Evangelii gaudium di Papa Francesco: “L’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un pastore con il suo popolo”.
Che cosa dobbiamo aspettarci per la nostra Diocesi? Questo nuovo incarico la porterà più spesso lontano da Foligno?
Ti faccio una confidenza. Quando ho cominciato a capire che ero in “pericolo”, non ho perso la serenità, ma mi sono chiesto: “Adesso come farò a svolgere il servizio di delegato per i seminari d’Italia?”. Il nuovo incarico non dovrebbe portare via tantissimo tempo in termini di incontri “fissi”, certamente ne richiederà molto per la preparazione. Non intendo sottrarre altro tempo alla Diocesi e per questo, come è mio stile, farò un discernimento, ma senza fretta: sant’Ignazio di Loyola insegna che non si deve prendere una decisione importante quando non tutto è chiaro.
Eccellenza, è il più giovane membro del Consiglio Episcopale Permanente, non si sente fiero di questa nomina?
Non nascondo la mia profonda gratitudine nei confronti dei confratelli che hanno riposto in me tanta fiducia. E tuttavia avverto non tanto di essere indegno (solo davanti a Dio si è indegni!), ma sento di essere inadeguato rispetto a tanti confratelli che portano sulle spalle la ricchezza di un’esperienza collaudata dalla vita. Mi accingo a entrare nella sala del Consiglio permanente della CEI un po’ come Davide… pur non essendoci nessun Golia, ma soltanto dei Padri nella fede, come il card. Giuseppe Betori!
Ci racconti un aneddoto, un retroscena, le sensazioni provate nel corso dell’Assemblea.
Prima di partire per Roma sono andato più volte da don Alessandro (Trecci – ndr) a chiedere di parlarmi della formazione permanente, di indicarmi il “codice segreto” della sua vita sacerdotale. Nella relazione che ho tenuto ai vescovi italiani sulla vita e la formazione permanente dei preti ho raccontato quanto mi ha confidato don Alessandro: l’ho fatto con parole mie ma il pensiero è suo: “Ho cercato di rimanere fedele ogni giorno all’adorazione eucaristica e alla meditazione, scegliendo con cura i tempi più adatti e gli autori da leggere; ho frequentato con assiduità il confessionale, ben sapendo che per essere buoni confessori bisogna rimanere umili penitenti; non ho trascurato la devozione mariana delegandola alle pie donne; mi sono sempre affidato alla Provvidenza, vivendo dell’essenziale; mi sono impegnato a custodire la virtù della purezza con maturità, letizia e dedizione, scoprendo quanto sia vero che uno riceve la vita proprio quando la dona; ho imparato a obbedire senza essere né pavido né cortigiano, riconoscendo che la volontà di Dio passa sempre attraverso le mediazioni umane; ho cercato di coltivare l’amicizia nella fraternità sacerdotale. Muoio contento, vorrei che si sapesse!”. Questa conclusione ha galvanizzato e commosso l’assemblea; il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, mi ha chiesto di intervistare don Alessandro: gli ho detto che proverò a domandarglielo…
Un’ultima curiosità: che cosa le ha detto Papa Francesco quando l’ha incontrata?
“Ecco il vescovo letterato!”. In occasione del primo incontro avuto con Papa Francesco, avvenuto qualche settimana dopo la sua elezione, egli mi chiese di mettergli per iscritto quanto gli avevo detto a voce; un anno dopo, quando lo incontrai di nuovo, mi ringraziò per quanto gli avevo scritto. L’ha fatto anche questa volta: il Papa ricorda tutto e si ricorda di tutti, quasi chiamando ciascuno per nome, come il Buon Pastore!
ENRICO PRESILLA