Capire Faloci Pulignani
Faloci “fascista”! Le virgolette sono d’obbligo, perché il fascismo si può intendere in tante maniere e quello di Faloci è un tipo molto particolare. Ma è un argomento tabù. In alcuni suscita imbarazzo, in altri repulsione. Non si vorrebbe però che il fascismo falociano generasse una specie di oblio forzoso, di “damnatio memoriae”. Fino ad oggi nessuno ha approfondito le ragioni della scelta politica falociana, forse perché l’argomento è ancora scottante, nonostante sia passato più di mezzo secolo dalla fine del regime fascista. Quanti anni devono passare ancora per rispondere alla domanda: «Perché Faloci fu “fascista”?». Occorrono forse altri cinquant’anni? Anche le costellazioni vogliono tempo; occorrono dunque anni luce? Senza aver l’aria di rispondere esaurientemente alla domanda, cerchiamo prima di tutto di capire qualcuna e qualcosa delle ragioni della scelta di Faloci, anziché formulare sbrigative condanne. La disapprovazione dell’opzione fascista del nostro monsignore, infatti, è di tipo consensuale. Ma se egli fu in buona fede? Se fu spinto da motivi che ritenne sufficienti? E se invece di aderire al fascismo, “si appoggiò” al fascismo, scommise, puntò sul fascismo per ricavarne effetti che riteneva positivi? Occorre, per rispondere, un’adeguata ricerca. Da evitare gli idoli della piazza di mercato, occorre ponderare. Questa nostra riflessione non è una apologia di Faloci “fascista”, ma un tentativo di spiegazione.
Il nostro monsignore non era sciocco e tanto meno guidato da pensieri malvagi; dunque, ancora una volta, perché accettò il fascismo, fino a diventare consigliere e assessore dell’amministrazione comunale durante il Ventennio?
Proponiamo tre ragioni: Faloci coltivò l’utopia di riuscire a moderare e, perché no?, cristianizzare il fascismo; Faloci reagiva agli spiriti rivoluzionari del biennio rosso; infine Faloci amava troppo Foligno per non aderire ad un’amministrazione cittadina che lo avrebbe assecondato nei suoi disegni di valorizzazione dei monumenti e delle istituzioni culturali della città. Tre ragioni: sono tutte? No. Discutibili? Sì. Ferreamente ideologiche? Non ci sembra proprio. Piuttosto, va messo in luce che le facili condanne di Faloci “fascista” non appartengono alla cultura scientifica, alla scienza storica propriamente detta, perché i corrivi biasimi non evidenziano le cause della posizione falociana, sono istintivi, talora moralistici, talora frutto di chiuse ideologie. Fuori dalla scienza esistono la morale, la morale politica, l’etica religiosa, ecc., che permettono giudizi oltre le spiegazioni, ma queste dimensioni dello spirito non si fondano su prove scientifiche, bensì su appropriate e diverse motivazioni. È meglio rendere queste motivazioni evidenti e pubbliche, senza gabellarle per scientifiche; è meglio stabilire la gerarchia dei valori ispiratori e cercarne il fondamento: già, il fondamento, quale? È una questione di antropologia che implica il tema del destino dell’uomo.
Una premessa: l’utopia falociana di moderare e guidare il fascismo non fu, nel Novecento locale e nazionale, l’unico sogno che albergasse nella mente di molti folignati e italiani, sacerdoti e laici, intellettuali e gente semplice. Altre utopie sono state altrettanto pericolose e foriere di dannose conseguenze, altre utopie hanno mancato di lungimiranza. Si pensi alle speranze poste sul bolscevismo, in generale sul comunismo totalitario, sullo hitlerismo, perfino sul maoismo e sul brigatismo rosso, ecc. Condannarle tutte sbrigativamente? E se furono abbracciate in buona fede? E se si ritennero motivate? Si dirà: «ma erano in se stesse sbagliate!»; certa- mente, ma erano sbagliate non per prove scientifiche contrarie, bensì per motivazioni interpretative che noi dobbiamo esplicitare, non lasciare nel sottinteso, fondare su solide e ragionevoli basi: quali? Sempre pronti a imparare.
L’utopia di mons. Faloci
I folignati che coltivarono l’utopia fascista furono molti; passando dagli anni Venti agli anni Trenta, i consensi al fascismo si molti-
plicarono assai, fino ad interessare pressoché tutta la popolazione. La lezione dello storico De Felice, e non soltanto la sua, è convincente; essa rileva che soltanto alla fine degli anni Trenta e nei primi anni Quaranta, quando cioè si profilarono il disastro nazionale, la sconfitta, la cocente umiliazione, allora si aprirono gli occhi di molti sull’Impero della retorica, sullo scatolone di sabbia delle violente pretese, sulla “guardia fatta al bidone della benzina” per servire la nazione. Ma prima di questa umiliazione, anche persone pensose, miti, accorte, come Don Angelo Messini o come il podestà Gastone Biondi ritennero che il fascismo poteva e doveva dare dignità alla nazione e progresso economico e sociale agli Italiani, servire all’educazione religiosa della gente. Quanti furono, a Foligno e in Italia, coloro che dissentirono dal fascismo a metà degli anni Trenta? Zero virgola uno per cento; ed erano eroi, una razza rara. Se invece bisogna fare i nomi degli aderenti al fascismo negli anni Venti e Trenta, soprattutto a metà del suo percorso, facciamoli pure, però senza tra- scurare i nomi di quasi tutti i padri o i nonni di coloro che oggi scagliano o scaglierebbero pietre contro Faloci. Fare i nomi dei fascisti di allora significherebbe aprire i libri dell’anagrafe del Comune. La massa fu fascista: perfino con entusiasmo, come in occasione della guerra d’Etiopia, o semplicemente per mancanza di alternative politiche praticabili, o anche per scansare le funeste conseguenze di un esplicito rifiuto. Tutti cittadini esecrabili, o tutti da capire storicamente? Che fa sennò la storia, se non capisce? Non giustifica, non condanna, però spiega. Anche se non basta ricorrere alla storiografia.
Citiamo dunque le parole utopiche, risalenti al 1925, di Faloci sognatore nei riguardi dei fascisti: «è meglio avvicinarli, istruirli, completando in essi quel sentimento religioso che oggi manifestano esteriormente, e che sarebbe tanto necessario trasformassero in convinzione….Ah! Non è col fuggirli, col sospettarli, con il deformarne le intenzioni che a ciò può giungersi». L’utopia falociana giungeva a sacrificare la necessità dei contrappesi nell’agone politico, sacrificare la stessa libertà di stampa; fino a questo punto il nostro monsignore vagheggiava un fascismo cattolico. Possiamo pensare che dopo le violenze fasciste del 1931 contro l’Istituto di S. Carlo, tipico centro di educazione cattolica, il sogno di Faloci di cristianizzare il fascismo, pur dopo il Concordato, subisse qualche sgradevole risveglio. Tutta la Chiesa italiana, anche il Papa, protestò. Faloci aveva 75 anni, forse sospirò «Ci risiamo! Bisogna cominciare tutto da capo!». Non sappiamo quello che pensò, ma è certo che rimase chiuso in silenzio, un silenzio per lui inabituale, per niente entusiasta.
La ragione reattiva
Passiamo alla seconda ragione della scelta “fascista” di Faloci, quella reattiva alle vio- lenze dei partiti di sinistra. Veramente, a Foligno, la violenza politica, tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, era di casa. Qualcuno ha scritto che i folignati furono i più politicamente violenti tra tutti gli umbri. Però le vittime erano spesso (non sempre) i cattolici, chiamati sprezzantemente “clericali”.
Il folignate Gaspare Basili (1872-1959) ci ha lasciato memoria esatta delle violenze subite dai giovani cattolici dell’Istituto S. Carlo; era di moda tirare sassi alle finestre dell’Istituto S. Carlo, era frequente l’uso del bastone contro i sancarlisti, capitava anche che qualche sciagurato ponesse mine nella chiavica della casa dell’Istituto; si arrivò ad uccidere un giovane sancarlista. Chi era l’ispiratore di queste violenze, chi era il cattivo maestro? Fatto sta che tali violenze furono pesanti, anche crudeli.
Ma, ripetiamo, la violenza a Foligno era quasi di moda; tra aderenti alle diverse fazioni politiche ci fu scambio di bastonate e di coltellate: per esempio, in occasione delle elezioni amministrative del 1914.
I socialisti cominciarono a praticare la violenza in occasione della Settimana rossa, ancora nel 1914: «A Foligno, i manifestanti entrarono nella stazione, ruppero gli scambi, rovesciarono alcuni vagoni sui binari, strapparono fili del telegrafo e del telefono, incendiarono i locali della piccola velocità, ecc.» (F. Alunni Pierucci).
Passiamo al biennio rosso. La Gazzetta parlò di forcalismo socialista. Importanti esponenti del socialismo locale mostrarono soddisfazione perché nell’ottobre del 1919 aderenti al socialismo riuscirono ad impedire il comizio di un popolare, Mario Cingolani; poi distrussero la stessa sede del Partito Popolare. Faloci fu aggredito, p. Luigi Fratini fu bastonato, il linguaggio usato da “Guardia Rossa” fu questo: «Perché la pretaglia costituitasi in società anonima per lo sfruttamento del feticcio S. Feliciano e compagni possa in- grassare l’immondo suo ventre…». Purtroppo la Gazzetta dovette scrivere che «Violenza produce violenza, cari signori… peggio per voi…e purtroppo anche per l’Italia». Ma ancora non bastava: il fatto più grave si ebbe quando furono gettate alcune bombe sui soldati che stazionavano in Corso Cavour, davanti all’Ufficio postale; ci furono 18 feriti; a due soldati furono amputate le gambe.
La violenza fascista non fu minore di quella socialista; anzi, risultando vincitrice, si aggravò spietatamente e ci furono numerose bastonature, olio di ricino, rivoltellate, uccisioni.
Che diceva allora Faloci ai socialisti? Nel “Corriere di Foligno”, uscito nel 1919-1920, scrisse: «Ai socialisti nostri noi diciamo una parola alta e serena. Se le vostre violenze dovessero impedire la libertà degli avversari vostri, voi dovreste arrossire della vittoria e dovreste innalzare una statua in onore del disordine». Lui, uomo conservatore ma passato attraverso la lezione popolare, aggiunse: «Amici della libertà nell’ordine saremo anzitutto i difensori degli umili, dei lavoratori, i quali non debbono essere ulteriormente sfruttati; noi vogliamo il bene, la pace, la prosperità del paese nostro».
Ma Faloci non era Don Sturzo, il prete sici- liano propositore di un programma politico lungimirante, disposto ad aspettare la maturazione moderata, non massimalista, del partito socialista. Faloci frequentava la villa “La Quiete” ed era amicissimo del principe Ugo Boncompagni e di tutta la sua famiglia; frequentava la casa Campello; tutta gente che puntò sulla carta vincente del fascismo, per amor di patria, come dicevano, e amor di Chiesa. Del resto, Boncompagni informava Faloci che Mussolini, già nel 1922, chiedeva un’udienza al Papa; fu ritenuta inopportuna; comunque il segretario di Stato vaticano, il cardinale Gasparri, cominciò a incontrare il duce fin dal 1923, nella speranza di arrivare a chiudere la Questione Romana e a tentare un Concordato, che erano le mete già predisposte alla vigilia della Grande Guerra e ostacolate dal re. Gasparri, della Scuola giuridica dell’Apollinare, avrebbe fatto un Concordato anche col diavolo, se le firme poste in calce avessero garantito effetti positivi, in primis la libertà della Chiesa.
Amore per la città di Foligno
Su questa terza ragione, altrettanto utile per capire la scelta politica di Faloci, ci soffer- miamo poco, perché generalmente, nel suo principio, riceve indubbi consensi. Tutti sanno che Faloci «aveva ridato un volto al centro storico della città ed aveva contribuito a ridefinire l’identità culturale di Foligno» (Luciano Radi). Oggi, basta che ci poniamo al centro della piazza della Repubblica e ci guardiamo intorno: la globale ristrutturazione della Cattedrale di S. Feliciano e il restauro di palazzo Trinci sono opera falociana, la ridefinizione artistica del palazzo delle Canoniche è iniziativa di questo nostro monsignore, il progetto di restaurare il palazzo del Podestà fu l’ultimo suo sogno (Faloci interessò l’architetto Ugo Tarchi), la sistemazione della Biblioteca comunale e dell’Archivio storico comunale nelle sale dello stesso palazzo Trinci fu una sua fatica, idem la costituzione del Museo lapidario ecc.
Tutte opere compiute durante il Ventennio. «Mons. Faloci è sempre vivo e presente nella sua Foligno, perché imperiture sono le opere dovute alla sua tenace volontà, opere che resteranno per sempre a decoro e splendore della nostra città… Accenneremo ancora alla Civica Biblioteca, realizzata dal patrio comune per la tenace, insistente e persuasiva parola di mons. Faloci nel 1936, e con la donazione della sua libreria privata, ricca di circa 8000 volumi e 10.000 opuscoli» (Feliciano Baldaccini). Il Baldaccini, direttore della Biblioteca Comunale, ritenne del tutto normale che tra i locali della Biblioteca spiccasse il “salone Faloci”. L’amore di Faloci per la città di Foligno e il suo territorio non aveva aspettato il fascismo per esprimersi. Faloci aveva, a suo tempo, ricostruito la chiesa di Ponte S. Lucia, riaperta la chiesa di S. Eraclio all’interno del castello e arricchita di opere d’arte la chiesa di S. Pietro in S. Eraclio, rifatta da capo la chiesa di S. Maria delle Grazie in Foligno, aveva ripristinato le due facciate della cattedrale di S. Feliciano (il duomo, rimesso a nuovo, fu consacrato il 25 settembre 1904), ecc.
Nel 1956 ricorreva il centenario dalla nascita di mons. Faloci; il sindaco comunista Italo Fittaioli ritenne opportuno far parte del Comitato di onore, volle anche che si ponesse una lapide in onore di Faloci, a cura del municipio, nell’atrio di palazzo Trinci. Fittaioli «abilmente propose di distinguere l’attività culturale del nostro illustre concittadino dalla sua attività politica e amministrativa per la quale esprimeva il suo netto dissenso» (L. Radi).
L’amore di Faloci per Foligno si espresse anche mediante la produzione di centinaia e centinaia di articoli, opuscoli, libri di storia locale (ma su questo tema altri torneranno con migliore e solerte attenzione). Insomma il vescovo Siro Silvestri poté scrivere: «Faloci è stato un nobile cittadino, alla terra natale incredibilmente affezionato. Questo amore gli causò tribolazioni e sofferenze grandi…». E il rappresentante del clero folignate, ancora nel 1956, sottolineò che Faloci aveva dedicato tutte le sue forze per rendere Foligno città più bella, più solenne, più nota. Il preside Pietro Pambuffetti chiamò Faloci «figlio amoroso di Foligno»; e spiegò: «Faloci amò la sua terra e la sua città con la tenacia e l’energia di un primitivo… ammonimento per quelli che pretendono di formare, su diluite affezioni e su non meno diluite demagogiche acquiescenze, un cosmopolitismo di comodo che tocca la superficie di tutte le astrazioni».
E noi?
© GAZZETTA DI FOLIGNO – Dante Cesarini