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La violenza in rosa

La Giornata dell’8 marzo sollecita alcune domande sulla violenza verso le donne. Perché la fine della società repressiva, resa possibile (soprattutto) dalle battaglie di libertà delle donne del ‘900, sta facendo crescere la società aggressiva e violenta contro le donne stesse? Perché tale fenomeno è così trasversale, prescindendo di fatto da età, territorio, estrazione sociale, tipologia di relazioni tra le persone coinvolte? Come promuovere una vera cultura di prevenzione? E visto che non si può demandare tutto alla scuola, quali altri soggetti e responsabilità è ora che si muovano? La violenza contro le donne è principalmente domestica. C’era anche ieri, quando le pareti di casa riuscivano a nasconderla. Oggi però il fenomeno dilaga terribilmente e spaventa, se ben 173 donne sono state uccise lo scorso anno, per non dire delle diverse forme di violenza fisica e psicologica consumate il più delle volte in famiglia. La crisi è culturale. È un problema più di valori che di psicologia. Cinquant’anni fa Erich Fromm insegnò l’arte di amare, ovvero come fosse possibile l’amore nella civiltà repressiva. Ma oggi, nella civiltà che nessuno chiama più repressiva, non abbondano le idee su cosa fare per cambiare i valori della società in modo che venga rispettato il diritto delle donne a vivere libere da aggressioni, intimidazioni e insulti. I verbi di desiderio non mancano – anche il governo sta predisponendo un piano straordinario d’azione -, ma poi la coppia, la famiglia e soprattutto i giovani si ritrovano a respirare la cultura dell’individualismo, che per affermarsi nega legami ed affetti e poco rispetta la dignità di ciascuno. Non è facile contrastare la cultura dei desideri che reclamano di diventare diritti, la cultura che emargina chi i desideri non può permetterseli o addirittura si trova ridotto a strumento dei desideri altrui. È chiaro che per prevenire questa ondata di violenza e di soprusi si dovrà ripartire dall’educazione dei ragazzi, ma occorrerà anche rivedere gli atteggiamenti degli adulti. Forse sarebbe il caso di cominciare dagli stereotipi più insopportabili che troppi media continuano a propinarci, dall’uomo mostrato nei ruoli forti alla donna rappresentata in ruoli subalterni e di servizio, fino al corpo femminile esibito come cosa che serve per vendere un prodotto o come specchietto per le allodole. Se gli adulti strizzano l’occhio a tutto questo, quale messaggio di pari dignità tra uomo e donna si lascia ai ragazzi? E non è vero che la violenza degli uomini che maltrattano le donne dipende dalla cultura trasmessa loro dalle figure maschili di riferimento? Un altro passo da fare – alcune esperienze cominciano a sorgere anche in Italia – è quello della cura della violenza di genere per aiutare gli uomini violenti a gestire le proprie pulsioni ed emozioni, soprattutto a superare la paura, la fragilità, la poca autostima che non permettono loro un confronto sereno con la donna di oggi. C’è poi bisogno di case protette per le donne che hanno subìto soprusi. E di pensare ai figli, le vittime più fragili e sole dopo certe violenze. A Foligno il cantiere è aperto, si tratta di animarlo.

ANTONIO NIZZI

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