Dai diamanti non nasce niente
Da Giacomo a Jacob: un designer si racconta
Nato a Foligno, classe 1984, Giacomo Bevanati è un giovane architetto e designer. La sua è una storia di colore nel buio di tanti resoconti su chi si affaccia al mondo del lavoro. “Tutto nasce un anno e mezzo fa, costretto a casa per una malattia. Anni prima avevo realizzato un plastico con del filo ma non gli avevo dato importanza. Dieci anni dopo, i pensieri e la rabbia dello stare chiuso in casa incontrano il filo avanzato, rimasto lì dimenticato”. Nasce così Jacob, una collezione di accessori, maschere e cravatte merlettati a mano intrecciando ottone e acciaio. Ispirato al Medioevo e al Tristano e Isotta delle Chansons de geste, Jacob guarda al giaco, la cotta di maglia metallica utilizzata dai condottieri per supplire alle aperture dell’armatura e proteggersi dai fendenti. Vacilliamo un po’ pensando al suo peso, ma del giaco fortunatamente c’è solo il nome, in un neodadaismo chic e raffinato.
C’è una frase di Gaetano Pesce – suggerisce Giacomo – che ben rappresenta Jacob: Diversificare vuol dire personalizzare. Contro la banale ripetizione dello standard, la differenziazione porta nella serie il brivido vivificante della casualità. “Nella mia serie – ci spiega – questa frase ha senso perché alla fine dell’intreccio, azione che si ripete sempre uguale, nessun filo avrà fatto lo stesso percorso”. Metafora per dire che ciascuno di noi ha la propria originalità da far emergere, “ricetta che il giovane di oggi può inseguire per salvarsi dalla crisi”. Del resto Jacob-Giacomo ci insegna molto. Prima di tutto che da cose povere possono nascere oggetti preziosi, cose mai esistiti prima. Secondo, che “anche un filo, per quanto lineare, può dare volume ad un vuoto”, come quello della difficoltà che vivono molti nel trovare uno sbocco occupazionale.
C’è infine anche un jeu de mots dentro Jacob, che racchiude in sé il nome del suo ideatore Jaco(mo) B(evanati). “Da piccolo ero un bambino anomalo, i miei disegni erano diversi da quelli degli altri. A 10 anni disegnavo case con la planimetria. A 18 anni mi sono ammalato e mi sono ritrovato solo in ospedale, nel caldo d’agosto e senza stimoli. È qui che due infermieri mi hanno preso a cuore spronandomi a credere nei miei sogni e ad intraprendere l’università”. Dare alla caduta la possibilità di essere presente così che ti porti a crescere: questo il suo motto per un design mai scontato, originato da due malattie e da una lunga battaglia per potersi iscrivere all’albo degli architetti e che ora segna un nuovo inizio.
Il punto di forza di Jacob è anche un altro – ci svela – quello di aver coagulato attorno a sé gli entusiasmi di altri giovani. Una sorta di cammino provvidenziale, “collaborazioni nate per caso e che insegnano che chiudersi a riccio non vale mai la pena. Uscire, parlare delle proprie passioni è ciò che fa nascere il mutuo aiuto”. Il talento del singolo è quello che porta a creare, sembra dirci, ma è con la squadra che si vince. E Giacomo ce lo di-mostra con un team di talenti tra cui spunta la folignate Irina Mattioli che ha fatto dei suoi scatti un’imprescindibile vetrina nel sito jacobjewels.com. E per il futuro? Giacomo pensa ad un’esperienza all’estero ma non di certo per fuggire. Aumentare il suo bagaglio per poterlo regalare alla sua città è quello a cui pensa. Degli altri progetti che bollono in pentola, tutti interessantissimi e cuciti su Foligno, dobbiamo (ahimé) tacere e pazientare, proprio come Giacomo insegna: “Jacob è un grande lavoro di pazienza. Un piccolo pezzo richiede un lavoro di 8-10 ore. È una pazienza estetizzata”.
La storia di Giacomo illumina, e le sue creazioni forse ci piacciono così tanto perché lasciano intravedere la bellezza della sua storia facendoci capire che anche ognuno di noi è unico.
Insomma, pur lontani dal medioevo, viva il giaco-mo.
© Gazzetta di Foligno – FRANCESCA BRUFANI