I profeti inquieti
La poesia del Novecento interroga gli uomini di buona volontà
La poesia del Novecento si dilunga in equivoci silenzi riguardo al Natale; ed ha, generalmente parlando, piena ragione. Già Ungaretti, nel 1916, preferiva non tuffarsi nel gomitolo di strade affollate, eleggendo ad interlocutrici privilegiate le più silenziose e confortanti capriole del focolare. Al di là delle filastrocche e delle rime, delle canzoncine e degli adagi che appartengono non tanto all’ambito della poesia quanto a quello delle tradizioni, i poeti del Novecento tendono a prendere le distanze dalle interpretazioni pagane del Natale. Lo stridore delle versioni umane troppo umane di un momento così intenso da vivere, la disarmonia degli accenti migrati verso le parafrasi consumistiche che ben conosciamo aumentano e giustificano il sospetto e le perplessità dei poeti. Non sarà un caso se David M. Turoldo scrive: “Di te abbiamo fatto un Cristo innocuo: che non faccia male e non disturbi; un Cristo riscaldato […] Un Cristo appena ornamentale”. Ecco qual è il punto: la poesia, che è voce di profezia, non può che tornare al cuore delle questioni e svelare, talora con amarezza ma sempre con incrollabile fiducia nella conversione dell’intelligenza, gli inganni delle virtù penultime spacciate, con nevrotica ripetitività, come valori ultimi. Anche i poeti di più robusto scetticismo, a metà strada – come il più grande fra tutti, Eugenio Montale – fra negatività dell’essere e ricerca di un varco che ci metta nel mezzo di una verità, avvertono con malcelato fastidio il Natale delle luminarie, comprendendone, pur nelle geometrie dell’agnosticismo, il valore assoluto come proposta di dignità, redenzione e nuova umanità. Sembra incredibile, ma la poesia moderna sa avvertire l’esilio del Bambino Gesù come un’atroce ferita nel volto stesso degli uomini: non l’assenza, ma l’esilio di Gesù, la sua cacciata, peggio ancora la sua metamorfosi in figurina è ciò che provoca il silenzio, la perplessità, lo sbigottimento. “Siamo tutti vecchi e storditi – scrive ancora Turoldo – Da noi non nasce più nessuno: non ci sono più bambini fra noi. Siamo tutti stanchi […] Il solo bambino delle nostre case saresti tu, Gesù , ma sei un bambino di gesso! Nulla più triste dei nostri presepi: in questo mondo dove nessuno più attende nessuno” (David M. Turoldo, Lettera di Natale). Eppure, proprio dal cuore della poesia novecentesca, riparte il messaggio della verità e del conforto. Un poeta profondamente umano, come Umberto Saba, rinnova la speranza affidata agli uomini di buona volontà con parole semplici e vere che sono l’opposto perfetto delle declinazioni di ogni paganesimo: “Fa’ che il tuo dono s’accresca in me ogni giorno – egli scrive nella sua A Gesù Bambino – e intorno lo diffonda nel tuo nome”. Questa urgenza di Dio, del resto, questa paura che il mondo degli uomini non sappia più dare cittadinanza ad un’ autentica proposta d’amore (altro termine scippato al suo reale significato da scadenti parafrasi ornamentali), è ben testimoniata anche dalla narrativa. Esemplare è il Racconto di Natale di Dino Buzzati, un testo nel quale si svela da un lato la ritornante tentazione umana di addomesticare e privatizzare Dio (“Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego” chiede a più d’uno l’affranto don Valentino che però, da tutti, riceve la stessa risposta: “Ma neanche per idea, caro il mio reverendo!” ), dall’altro la vicinanza di Dio che resta sempre al fianco degli uomini anche quando questi non sanno vederlo (“Buon Natale a te, don Valentino” esclamò l’arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. “Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?”). A me pare che la nostra realtà preferisca le pagine più accomodanti delle rime tradizionali, quelle del bue e dell’asinello, rinnovate non di rado da autori anche particolarmente significativi: basti pensare alle Ciaramelle del Pascoli, alla Notte Santa di Gozzano, al Presepe di Quasimodo oppure alla Stella sulla strada di Betlemme di Pasternak. Ma si tratta, in questo caso, di voltare le spalle alla verità, di sprofondare ancora una volta nella cotonosa ipocrisia che rende i natali pagani così noiosi, opprimenti ed alienanti, con quel sospiro finale di soddisfazione perché la festa è finita finalmente. Meglio la bontà da bollini del supermercato piuttosto che i poeti, meglio sentirsi tutti più buoni che non vivere, o almeno provare a vivere, l’urto liberatorio che la poesia (voce di verità) torna a proclamare: Vieni a cercarci, noi siamo sempre più perduti e dunque vieni sempre, Signore. Vieni tu che ci ami: nessuno è in comunione col fratello se prima non è con te, Signore. Noi siamo tutti lontani, smarriti, né sappiamo chi siamo, cosa vogliamo. Vieni, Signore. Vieni sempre, Signore (Turoldo, cit.). Mi piace terminare questo contributo con un’Aria di Bertold Brecht, una poesia certamente non bella né buona, lontana anni luce dai natali gastronomici, ma adattissima a tutte quelle anime che, in questo periodo, si sentono sempre un po’ più ‘cattive’: “Mi fai spuntar le lagrime, fratello, vedo che la tua vita non è allegra. Ecco una mela: io ne possiedo tre, perciò una la regalo a te. Non ci vedo niente di eccezionale: e l’uno e l’altro possiamo vivere. Solo i semi, promettimelo, avido non inghiottirli, sputali invece a terra prima che mi allontani. E se poi cresce un melo dentro il mio campicello vieni a prenderti i frutti: è il tuo albero quello!”.
© Gazzetta di Foligno – GUGLIELMO TINI