Gualtiero Sigismondi

Nulla tra me e Dio

Il Concilio Vaticano II, prima che un insieme di documenti, è un evento storico, ha rilevanza in quanto accadimento nella storia della Chiesa e in quella del mondo. Abbiamo chiesto al Vescovo Gualtiero di guidarci nella lettura di questo evento per una migliore comprensione della sua portata per l’oggi della Chiesa e della società.

Gualtiero SigismondiChe cosa garantì lo stile sinodale con il quale, malgrado alcune “crisi”, si svolse il Concilio e come rendere permanente quello stile?
Lo stile sinodale fu una scoperta. I padri conciliari si trovarono a vivere una dimensione che non conoscevano, erano infatti figli del Vaticano I, che aveva messo al centro la figura del Vescovo di Roma. Furono ragioni storiche a interrompere quell’esperienza conciliare, ma anche la Provvidenza ebbe il suo ruolo, perché non ci sarebbe stata la chiarezza teologica per parlare della collegialità episcopale così come poi fece il Vaticano II. Fu la sorpresa di un’esperienza inattesa ad aiutare i padri a scoprire la sinodalità e a sperimentare un metodo che, peraltro, non è stato ancora oggi totalmente scoperto. Perché è facile parlare di sinodalità, ma il metodo sinodale è tutt’altra cosa, è ancora di là da venire. Nemmeno lo strumento del Sinodo sembra pienamente adatto a realizzarla…

La Lumen Gentium, dopo aver ribadito il primato petrino, afferma (LG 22) “D’altra parte, l’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa…” Come si conciliano primato e Collegialità?
Leggendo il numero 22 della Lumen Gentium, non si riesce a cogliere con chiarezza se i soggetti della suprema potestà della Chiesa siano due o uno solo. Il romano Pontefice da un lato e il Collegio Episcopale dall’altro (certamente con il suo capo, perché non c’è collegio senza capo)… A me piacerebbe dire che soggetto è uno solo e due le forme di esercizio: personale e collegiale. Probabilmente si arriverà a questa consapevolezza, perché lo impone il cammino ecumenico.

Da Vescovo come vive la corresponsabilità nella guida della Chiesa universale?
Intanto attraverso una profonda comunione col Vescovo di Roma. Non potrei fare il vescovo senza questo vincolo di comunione, così come un prete non può esercitare il suo ministero se non è in comunione col proprio Vescovo. Dal punto di vista operativo un primo livello di corresponsabilità è quello delle conferenze episcopali; è un livello non ancora teologicamente costituito, ma è quello nel quale si esprime la vita ordinaria della collegialità. Insieme a questo vi è l’incontro fraterno tra i vescovi, il sentirsi, scambiarsi visite. Per me anche il servizio di delegato pontificio per i seminari è un modo per vivere concretamente questa corresponsabilità. Da un punto di vista più generale sono convinto che le forme per esprimere meglio la collegialità verranno, la Lumen Gentium già le prevede quando si riferisce ai patriarcati. Durante la celebrazione del Papa ad Assisi avevo di fronte a me i cardinali che il Papa ha scelto da ogni continente per farsi consigliare nell’esercizio del ministero petrino: mi sembra che questa struttura, la cui architettura non è ancora completamente definita, sia una vera profezia della Chiesa.

C’è relazione tra il tema della collegialità dei vescovi e quello della partecipazione di tutti i fedeli alla vita della Chiesa?
Partecipazione dei fedeli laici e collegialità sono entrambi strumenti che rendono concreta la sinodalità. La partecipazione dei fedeli alla vita della Chiesa costituisce, a livello di Popolo di Dio, ciò che la collegialità rappresenta sul piano dell’ordine episcopale. Mi sto convincendo che il Popolo di Dio ha nel “sensus fidei” il suo sistema immunitario: tutta la Chiesa ha bisogno del “sensus fidei” del Popolo di Dio e di sue concrete espressioni, anche il Papa non può farne a meno.

Qual è a suo giudizio la più importante “comprensione” che ci ha consegnato il Concilio?
L’ecclesiologia. Forse non ce ne accorgiamo, perché siamo cresciuti in un contesto già segnato dal Concilio. La Liturgia ha costituito la novità sulla quale ci si è maggiormente concentrati, anche per la sua “visibilità”, ma è l’ecclesiologia il grande dono del Vaticano II. Il Concilio ci ha fatto capire che non possiamo incontrare Cristo senza la Chiesa. È questa la rivoluzione conciliare.

Quanto influirono i laici e attraverso quali “canali”?
L’intuizione di chiamare dei periti e di comprendere tra questi anche dei laici è stata essenziale per i risultati dell’assise. I laici furono percentualmente minoritari, ma il loro contributo risultò dirompente nell’elaborazione della visione di Chiesa. Non dobbiamo dimenticare che a quel tempo persino i sinodi diocesani erano fatti di soli preti. Ma non fu solo la presenza fisica dei laici al concilio. Molti padri conciliari avevano ormai consolidato un’apertura verso la dimensione laicale, che derivava dalla presenza nella Chiesa di un tessuto laicale ormai spiritualmente formato.

A che punto siamo nella comprensione “fattiva” della pari dignità della vocazione laicale con quelle di speciale consacrazione?
Non siamo tanto avanti, ma abbiamo imboccato la strada giusta: quella della sponsalità. È questo il binario sul quale può correre l’incontro…

Quindi la vocazione laicale coincide con quella matrimoniale?
Non si può dire che coincida, ma la sponsalità è l’ossatura, la spina dorsale di ogni vocazione e non solo di quella laicale. Ce lo dice il libro della Genesi. Non è bene che l’uomo sia solo. Questo vale anche per i ministri ordinati. Senza lo sviluppo della sponsalità verso la Chiesa anche la vita di prete o di un vescovo inaridisce. La stessa sinodalità ne ha bisogno, altrimenti non funziona. Come si può camminare insieme senza di essa?

Il Concilio ha fatto quasi completamente a meno del contributo femminile nella sua elaborazione… Quanto pesa questa tara genetica e a che punto siamo nella comprensione del ruolo della donna nella Chiesa?
Siamo certamente ancora lontani e viviamo in qualche modo questo paradosso: le donne hanno nella Chiesa un’importanza di fatto molto superiore alla consapevolezza che la Chiesa stessa ha del loro ruolo. Quanta parte ha la donna nella vita della Chiesa? Che cosa accadrebbe se allontanassimo le donne dalla vita delle nostre parrocchie? Il cammino da compiere non si basa sulla questione della pari dignità, questo è un pregiudizio, bisogna piuttosto riscoprire i due principi, quello petrino e quello mariano, ce lo insegnano i teologi del Concilio. Siamo ancora lontani dal leggere il problema alla luce di queste categorie. Maria fu necessaria a tenere unito il cenacolo in vista della Pentecoste. La donna è necessaria per la pentecoste permanente della Chiesa.

“Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza.” Così si esprime la Lumen Gentium (LG 8). Come si concilia la povertà della Chiesa con la sua “oggettiva” ricchezza o, almeno, ampissima disponibilità di beni?
Commenterei il numero 8 della Lumen Gentium, che è uno dei punti cardine della Costituzione, con un pensiero di Paolo VI diretto alla Chiesa: “Cammina libera, cioè povera”. Qui c’è la sintesi del percorso che la Chiesa deve compiere. Non c’è povertà senza libertà. In questi ultimi tempi ho riletto gran parte delle fonti francescane e mi si è fatto chiaro che lo spogliarsi di se stessi è la vera povertà che rende liberi. San Francesco si spoglia veramente quando lascia la guida dell’ordine, non quando lascia il cavallo o quando davanti al vescovo lascia suo padre… La Chiesa è povera quando può dire: nulla tra me e Dio! Possiamo dire questo? Possiamo dire che questa è la regola pastorale? Potremmo anche vestirci da straccioni, ma finche ci sarà qualcosa tra noi e Dio non saremo liberi, cioè poveri.

Ma l’ampia disponibilità dei beni non costituisce di per sé un rischio? E non può addirittura compromettere l’efficacia dell’evangelizzazione?
C’è un rischio e io ne sento personalmente il peso, perché spesso devo dedicare tanto tempo a gestire i beni della Chiesa, anziché curare i suoi tesori, che sono le anime. Ma non posso disfarmi di ciò che la Chiesa ha ricevuto nel tempo dalla carità della gente… Devo custodirlo e trasmetterlo, facendo in modo che la Chiesa non ne tragga profitto, ma possa mantenerlo per fare del bene.

A 50 anni di distanza quali sono gli aspetti ormai “consolidati” del dettato conciliare e quelli sui quali invece c’è maggiormente da lavorare?
È una domanda difficile, perché alcune conquiste che sembravano consolidate si stanno dimostrando in realtà fragili. Paradossalmente l’ecclesiologia, che è la grande conquista del Concilio, è anche la sua creatura più fragile. Senza la Chiesa non conosciamo veramente Cristo, possiamo semmai accedere a un “Cristo dell’io”, che però è essenzialmente una nostra creatura… Eppure sperimentiamo quotidianamente quanto sia difficile fare Chiesa!

Il Concilio è frutto di un’ispirazione solitaria di papa Giovanni XXIII, ma è stato “preparato” da alcune avanguardie culturali e teologiche. Dove dobbiamo guardare oggi, se vogliamo capire chi sono i “precursori”, per non dire “profeti” nella Chiesa del nostro tempo?
Non dico dove cercare dei profeti, ma come individuarli. È facile: basta guardare al loro tasso di libertà da se stessi. Per un vescovo la profezia dipende dalla sovrana indifferenza rispetto al futuro che l’attende. Per un prete è lo stesso. Uno dei profeti del Concilio è senz’altro Primo Mazzolari. Perché profeta? Perché non ha mai cercato se stesso e non ha mai smesso di amare la Chiesa, anche quando dalla Chiesa è stato schiaffeggiato (a torto). Finché coltiviamo qualche sottile attesa per noi stessi, non potremo mai esprimere alcuno spirito di profezia.

Se avesse un evidenziatore in mano e dovesse sottolineare due espressioni di una qualunque costituzione conciliare per metterle all’attenzione della nostra Chiesa diocesana…
La prima la scelgo dalla Gaudium et Spes: “Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova piena luce il mistero dell’uomo”. La seconda la prendo dalla Lumen Gentium, ma la ritraduco trasponendo la prima: “Solamente nella bellezza della Chiesa trova piena luce lo splendore di Cristo Salvatore”.

© Gazzetta di Foligno – VILLELMO BARTOLINI

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