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L’Umbria, il riccio che si chiude

La struttura produttiva dell’Umbria, fotografata dal Documento annuale di programmazione 2012-2014, si regge su una base di microimprese che spesso lavorano per aziende fuori regione e su un mercato del lavoro dove l’area del precariato e il contratto a tempo determinato sono superiori alla media nazionale. La recessione ha toccato la gran parte delle unità produttive. E l’andamento del Pil per abitante – nell’ultimo rapporto economico dell’ AUR – attesta che, quando la dinamica nazionale va, l’Umbria va meglio, quando l’Italia riduce la crescita, l’Umbria va ancora più giù. Il prof. Bruno Bracalente, autore di una ricerca commissionata dalla Confindustria umbra e intitolata Verso l’Umbria del 2020, sostiene che l’economia regionale è debole nell’intercettare e nel rispondere, con l’offerta di beni e servizi prodotti localmente, a domande esterne al territorio regionale. Il nodo strutturale, di sistema, che penalizza l’economia umbra sarebbe dovuto al “non favorevole equilibrio tra la componente dell’economia aperta alla competizione del mercato nazionale e globale e la componente che fa capo al resto delle attività produttive”. L’economia regionale si ritrova così “accartocciata sul mercato interno sostenuto dalla spesa pubblica”, con i suoi 50 mila addetti, e dalle pensioni, che sono ben più di un terzo dell’intera popolazione. Altre criticità riguardano la dinamica interna dell’occupazione regionale – non molto stabile, non molto qualificata e con modesti livelli di istruzione – che non favorisce il superamento della bassa produttività. E così “i meccanismi che fin qui hanno garantito l’equilibrio al sistema regionale che consentiva di tenere insieme bassa produttività e alto benessere non potranno funzionare più come in passato. Se non è più tempo di crescita quantitativa in generale, non è neppure pensabile che in Umbria possa continuare la crescita quantitativa delle attività terziarie tradizionali rivolta alla domanda locale. E per ragioni ancor più evidenti, non appare più facilmente sostenibile neppure quel ruolo integrativo del settore pubblico nella determinazione degli elevati livelli di benessere della società regionale”. Parole condivisibili, queste di Bracalente. Come pure l’idea di valorizzare “tutti i fattori dell’attrattività regionale”, cioè di aprire la regione ai territori vicini e di realizzare un’integrazione interregionale che renda l’Umbria più attrattiva per gli investimenti e la manodopera qualificata. Valide anche le proposte: l’istruzione di qualità, le risorse culturali non effimere, la predisposizione di infrastrutture che invoglino imprese innovative fondate sulla conoscenza e l’innovazione, la valorizzazione della qualità ambientale e urbana. Urge però un cambiamento di cultura politica nei tradizionali gruppi dirigenti regionali: è tempo di investire nel capitale umano, di incoraggiare le attività produttive autonome capaci di rischiare, di convertirsi ad una cultura del merito, delle competenze e della responsabilità. Andare oltre la tutela degli interessi consolidati e delle rendite di posizione è la sfida nuova per la regione “più vecchia” d’Italia.

© Gazzetta di Foligno – ANTONIO NIZZI

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