La porta regale e i suoi uscieri maldestri
Riflessioni sull’estetica orientale e gli obbrobri nostrani
Sono due settimane che sto lavorando in Galilea, non è molto, ma basta già a farti entrare in una visuale prospettica diversa, quella della nuova evangelizzazione. Per questo, leggendo da qui l’ultima Gazzetta, non ho potuto fare a meno di notare alcune “stranezze” che i cristiani di Terrasanta, coi quali sto vivendo, troverebbero totalmente incomprensibili.
Qui si spendono le energie migliori per ritrovare l’unità e, come il Papa stesso ha più volte sottolineato, l’obiettivo principe è tornare in comunione con i fratelli ortodossi. Naturalmente il dialogo non può essere fatto di parole finte, ma deve essere davvero un imparare gli uni dagli altri. Le due Chiese sorelle stanno aprendo i rispettivi scrigni, pieni di preziosa tradizione scrupolosamente custodita, per mettere insieme i loro tesori. Vi assicuro che partecipare alle liturgie “bizantine”, che si svolgono ancora oggi secondo il rito composto da san Giovanni Crisostomo, fa pensare molto al fatto che, talvolta, nelle nostre celebrazioni il senso del sacro non è così evidente e i segni liturgici non sono pienamente espressi.
Ma in un’intervista pubblicata nell’ultimo numero della nostra Gazzetta, leggo che la Chiesa dovrebbe cercare le forme dell’arte contemporanea (come nelle immagini dell’ultimo lezionario, quantomeno discutibili) per comunicare se stessa e il Vangelo al mondo. Ora non è il caso di stare qui a fare una distinzione tra diversi tipi di arte contemporanea (per fortuna nel contemporaneo la bellezza non è del tutto scomparsa, Antoni Gaudì ce lo dimostra), perché la stessa intervista ci fa sapere a quale arte si riferisce affermando che la Chiesa di san Paolo a Foligno ne rappresenta “l’eccellenza”. E dopo averne qualificato l’interno “stupendo”, passa disinvoltamente a definire “un disastro” gli arredi sacri della maggior parte delle chiese di recente costruzione. Non solo, ma si bollano come “anacronistiche” le “immagini neo-bizantine”, cioè le icone.
Queste immagini però (nell’intervista non lo si dice) hanno il pregio di essere dipinte da gente che prega mentre lavora, sapendo che quell’immagine evangelizza come una catechesi. Invece questi iconografi con i loro apprendisti sono tristemente descritti come “star che imperversano con il loro seguito”. Poi si aggiunge candidamente che per dipingere temi sacri non occorre essere credenti, solo esserlo non guasta (citazione dal magistero di Gerardo Dottori).
Che dire? Se io, che sono un cattolico nato in Umbria sul finire del ventesimo secolo, faccio fatica a comprendere come sia possibile pregare al cospetto di certe brutture (per carità, c’è chi ha pregato anche nei lager, ma non per questo mettiamo il filo spinato nelle chiese), che direbbe un cristiano d’oriente? Scuoterebbe la testa e si rivolgerebbe all’icona di Cristo, in ginocchio segnandosi con la croce, di fronte alla porta regale per la quale si entra nel mistero del Verbo eterno fattosi visibile.
© Gazzetta di Foligno – FRANCESCO BOVI