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Quando i divorziati si risposano. Domande per un confronto

“Una parola vorrei dedicarla anche ai fedeli che, pur condividendo gli insegnamenti della Chiesa sulla famiglia, sono segnati da esperienze dolorose di fallimento e di separazione. Sappiate che il Papa e la Chiesa vi sostengono nella vostra fatica. Vi incoraggiano a rimanere uniti alle vostre comunità, mentre auspico che le diocesi realizzino adeguate iniziative di accoglienza e vicinanza”. Con queste parole, pronunciate da Benedetto XVI durante l’Omelia per la Giornata mondiale delle famiglie, apriamo una rubrica su questioni etiche di grande attualità. Vogliamo riflettere insieme su domande delicate che sempre più la coscienza del credente pone alla Chiesa di oggi. Non sarà facile rispondere, ma non è certo con il far finta di nulla che si affrontano i problemi, tanto meno questo, ormai sempre più in crescita, dei divorziati risposati. Il cristiano sa che il disegno di Dio rivelato nella Bibbia è il matrimonio indissolubile, e per questo si impegna in una relazione esclusiva e totale, per sempre. La Bibbia non ignora la fragilità e i fallimenti, ma Gesù sulla Montagna richiama il disegno originario di Dio intorno all’uomo e alla donna e sul matrimonio unico e indissolubile. Allora l’annuncio deve essere apparso in controtendenza rispetto ai costumi e alla cultura dell’epoca, sia in Palestina che nell’Impero romano, come lo è nella società di oggi, dove aumentano i matrimoni che non superano la prova del tempo. Molte le cause: il mistero del male e del peccato che indebolisce la natura umana, l’impreparazione con cui si affronta e si coltiva la vita di coppia, la colpa di uno o la responsabilità di entrambi. La fedeltà all’impegno coniugale è oggi resa più labile dalla società fluida; anche la Chiesa fatica molto ad educare alla vita affettiva e matrimoniale, secondo il disegno di Dio, i giovani credenti e quanti chiedono il sacramento del matrimonio. Ma come sono considerati nella Chiesa i divorziati che si sono risposati? Per la Chiesa cattolica restano membra vive della comunità cristiana, sono esortati alla preghiera, all’ascolto della parola di Dio e a condurre una vita cristiana, ma non possono ottenere l’assoluzione e accedere all’Eucarestia. La soluzione lascia aperti diversi interrogativi. Come conciliare il disegno di Dio sul matrimonio con l’esercizio della misericordia, soprattutto verso chi ha dovuto subire un divorzio contro la propria volontà e non avendone colpa? E quando un matrimonio celebrato in Chiesa fallisce, era veramente, questo, “ciò che Dio ha unito”? Nelle Chiese ortodosse, seguendo la consuetudine dei primi secoli, si riconosce la possibilità di concedere, a certe limitate condizioni, il perdono al credente che ha rotto il patto coniugale, ammettendolo a seconde nozze. È possibile che anche la Chiesa cattolica adotti in futuro una prassi analoga che, con un cammino penitenziale, renda possibile la piena riconciliazione di divorziati risposati? Quando mancano nelle intenzioni degli sposi – e questo oggi è sempre più frequente – qualcuno dei tre “beni” del matrimonio, come l’impegno alla fedeltà, all’indissolubilità, alla procreazione, la Chiesa riconosce la nullità del loro matrimonio; ma non dovrebbero anche essere rivisti i percorsi formativi per i giovani che si avvicinano al sacramento? In passato, era consuetudine che la famiglia cristiana avesse il suo punto di partenza nelle nozze celebrate in Chiesa. E se oggi queste, dopo convivenze e unioni di fatto – che per la dottrina cattolica restano “oggettivamente irregolari” -, diventassero il punto conclusivo di un percorso di fede della vita adulta, la pastorale della Chiesa sarebbe attrezzata ad un cambiamento così radicale? Infine, di fronte alle coppie in difficoltà e magari tentate dalle scorciatoie, la Chiesa non potrebbe fare di più per ascoltare, accompagnare e sostenere il loro cammino? Abbiamo detto “Chiesa” e non “preti”: perché è l’intera comunità cristiana chiamata a farsene carico.

© Gazzettta di Foligno – Antonio Nizzi

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