Una folignate in California per sconfiggere i tumori
L’amore per la scienza, il coraggio di realizzare i propri sogni, la cena con un Premio Nobel; ma anche la fede, il modello aziendale di Facebook e gli italiani visti dagli USA
Conosco Luisa dai tempi in cui frequentava il Liceo che io avevo da poco terminato; mia moglie l’ha scelta come testimone di nozze, io ho sempre ammirato la semplicità e l’intelligenza che la caratterizzano. Sono emozionato, perché non avrei mai pensato di ritrovarmi un giorno a chiederle tramite Skype di rilasciarmi un’intervista.
Luisa, cominciamo: che studi hai fatto?
Ho frequentato il Liceo Scientifico “G. Marconi”, perché la scienza è sempre stata la mia passione; poi mi sono laureata in Chimica e Tecnologia Farmaceutica presso l’Università di Perugia, dove ho incontrato professori e ricercatori bravissimi. Svolgere la tesi nel laboratorio della prof.ssa Ursula Grohmann, dove stavano utilizzando una proteina di fusione per far regredire il tumore nel topo attivandone il sistema immunitario, è stata un’esperienza entusiasmante!
E poi che cosa è successo?
Verso la fine del percorso di studi universitari ho manifestato un forte interesse per il mondo della ricerca e il desiderio di entrarci appieno, ma i primi a sconsigliarmi di intraprendere la strada del precariato sono stati gli stessi professori e ricercatori.
Non mi sembra che tu ti sia scoraggiata…
Pochi giorni dopo la laurea sono andata a bussare alle porte di diversi laboratori in cerca di un posto di dottorato, e qui ho potuto toccare con mano l’estrema scarsità di fondi per la ricerca, tanto da dover lavorare gratuitamente. Ma stare senza retribuzione significa sminuire gli studi svolti. Così ho continuato la mia ricerca e, con un po’ di fortuna, ho finalmente cominciato il mio dottorato retribuito svolto tra l’Università di Perugia e Milano.
Ecco il primo grande “salto”: dalla provincia al capoluogo lombardo.
Sono entrata nel laboratorio del prof. Pier Giuseppe Pelicci, uno dei migliori scienziati italiani e direttore dell’Istituto Europeo di Oncologia, un posto all’avanguardia per strumenti e qualità di ricerca, direi alla pari di molti laboratori americani. Ma in Italia i professori a capo dei laboratori sono presi da mille impegni burocratici e di ricerca fondi, e non possono supportare pienamente i giovani ricercatori. Inoltre, la carriera dei professori non è abbastanza legata al successo e alle pubblicazioni dei loro studenti di dottorato, che spesso si sentono abbandonati. Ne consegue un generale clima di frustrazione.
Ma tu non hai mollato nemmeno questa volta!
Beh, ho cominciato a considerare l’idea di provare un’esperienza all’estero, per misurarmi con un ambiente più stimolante, produttivo e meritocratico.
Ma come hai fatto a finire a Stanford?
Ho vinto una borsa di studio FIRC (Fondazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, ndr) per l’estero. Tengo a sottolineare che ben sei anni del mio stipendio sono stati finanziati da associazioni come AIRC, FIRC e AICF (American Italian Cancer Foundation), basate su donazioni volontarie, a dimostrazione che, mentre i governi non danno molta importanza alla ricerca, gli italiani credono nel suo valore e le loro donazioni finanziano gran parte di noi giovani ricercatori!
Detta così, sembra sia stato semplice lasciare l’Italia.
In realtà ho passato mesi insonni per cercare di prendere la decisione di allontanarmi dalla mia famiglia e dagli amici. Però, appena messo piede a Stanford, ho realizzato che quella era stata una scelta azzeccata.
Che cosa fai a Stanford?
Nel laboratorio della prof.ssa Katrin Chua, dove sto svolgendo il mio postdoc (ricerca post-dottorato, ndr), sto studiando il ruolo di una proteina della famiglia delle “Sirtuine” (note per le loro proprietà anti-invecchiamento) nella divisione cellulare. Ho osservato che questa proteina è essenziale per evitare che le cellule si dividano in modo anomalo e generino cellule figlie con un contenuto genetico sbagliato, che le predispone a trasformarsi in cellule tumorali: tutto ciò suggerisce che tale proteina ha un ruolo anti-tumorale. Questo è molto eccitante, perché potrebbe stimolare l’utilizzo futuro di farmaci attivatori di questa proteina nella cura del cancro.
Ma che cosa si prova a lavorare in una delle Università più prestigiose al mondo?
Stanford University è meravigliosa, c’è di tutto. Piscine olimpioniche, palestre, mense, teatri, auditorium, centri di ritrovo e ogni tipo di attività che uno studente possa desiderare: seminari tenuti dai più famosi scienziati, moderne tecnologie per la ricerca e tecnici al servizio dei ricercatori, molta apertura alla collaborazione con altri laboratori e discipline. Il tutto avvolto da un’atmosfera di grande energia: studenti di ogni parte del mondo che in bici o skateboard si muovono tra gli edifici del campus immerso nel verde e nelle palme. Confesso che dopo due anni e mezzo, a volte, penso ancora di essere in vacanza!
A dicembre scorso, l’ultima volta che ci siamo visti a Foligno, mi hai raccontato della cena con un “Premio Nobel”. Te lo ricordi?
Sì! Ho avuto l’onore di partecipare ad una cena molto intima ed elegante a casa del preside della Facoltà di Medicina, in cui era invitata Elizabeth Blackburn, premio nobel per la scoperta dei telomeri, le estremità dei cromosomi che proteggono l’informazione genetica. Non potevo credere di trovarmi lì a parlare del mio lavoro con una delle scienziate che ammiro di più al mondo! Sono stata invitata perché volevano che alla cena ci fossero giovani interessati all’argomento, e io in Italia avevo condotto ricerca sui telomeri. Una cosa che adoro di qui è la visione molto meno gerarchica dei ruoli, i professori hanno davvero fiducia nelle capacità degli studenti e dei giovani. Non ci si sente mai a disagio di fronte a chi è più avanti professionalmente.
So che hai visitato la sede di Facebook. Raccontaci qualcosa.
Sono passata accanto alla scrivania di Mark Zuckerberg, è esattamente nel bel mezzo di tante altre scrivanie dei suoi giovanissimi dipendenti. Si riconosce facilmente perché accanto a quella di Mark ci sono diverse paia di rollerskates per giocare a hockey con i dipendenti nel cortile dell’azienda.
Cosa? Giocano durante l’orario di lavoro?
La flessibilità dell’orario di lavoro, le aree ricreative (persino una zona tutta tappezzata con i mattoncini Lego) e il comfort (tutto è gratuito e a portata di mano, non solo cibo, ci sono perfino distributori di mouse e tastiere) non distraggono questi ingegneri, che anzi, lavorano con più energia. Ma è soprattutto la libertà che si ha nel lavoro a fare la differenza: nelle aziende, come nei laboratori di Stanford, si crede nella possibilità di ognuno di portare idee creative e si lascia che i lavoratori sviluppino le proprie passioni.
Che cosa si dice negli USA degli italiani?
Ci sono tantissimi italiani nella Silicon Valley, tutti molto apprezzati professionalmente. Lavoriamo in modo intenso e con entusiasmo; nel mio laboratorio, su un totale di sei ricercatori, tre sono ragazze italiane! Mi chiedono spesso come facciamo ad abitare con mamma e papà così a lungo…
E gli americani come sono?
Hanno meno il senso della comunità, sono più chiusi nella formalità di giornate programmate e produttive. Però, quando mi confronto con chi è rimasto sempre a Foligno, mi accorgo che gli americani sono aperti al diverso senza giudizi. La California è eccezionalmente multietnica, e il confronto con persone di così tante culture e religioni fa essere gli americani, e anche un po’ me ora, consapevoli del fatto che non c’è un solo un modo di vivere, una sola strada.
Come ti appare Foligno quando rientri in Italia?
Quando torno a Foligno mi assale la nostalgia, mi manca soprattutto il modo in cui io trascorrevo il fine-settimana: il Corso o la parrocchia. Mi manca quella capacità che abbiamo di gustare le cose, di fermarci a chiacchierare senza fretta per scambiare problemi o gioie. E certamente mi manca l’attenzione al cibo e i bei vestiti.
La preparazione cristiana che hai ricevuto regge all’impatto con le tante culture e manifestazioni più o meno religiose con le quali entri in contatto?
Penso spesso agli insegnamenti che si sono radicati in me da adolescente, soprattutto ai bellissimi tempi del dopo-Cresima sotto la guida di don Gianni Nizzi: mi rendo conto che ho sempre gli stessi valori e che nulla è cambiato. Nello stesso tempo il confronto con molti amici atei o di altre religioni sta rendendo la mia fede più matura, perché quei valori che davo per scontati, ora invece mi trovo a risceglierli tra tanti altri, perché penso che diano un senso più profondo alla mia vita. La prima volta che sono andata alla Messa qui è stata molto emozionante. All’inizio mi sembrava tutto diverso e mi sono trovata da sola. Ma la Messa è identica, mi ha fatto sentire appartenente ad un’unica famiglia.
Siamo in dirittura di arrivo e non posso esimermi dal farti la classica domanda: ti piacerebbe tornare in Italia?
Mi mancano la famiglia e gli amici. I miei genitori sono stati molto intelligenti ad incoraggiare me e mio fratello (che si trova in Svizzera per lavoro) a seguire i nostri sogni, ma per loro mi dispiace molto. Ho ancora tanto da imparare e da lavorare qui, ma mi piacerebbe tornare a fare ricerca in Italia e per l’Italia. Magari un giorno potrò contribuire ad avvicinare i giovani italiani alla ricerca. Inoltre, se avrò dei figli, mi piacerebbe trasmettere loro la mia cultura, e penso che l’esigenza di tornare si farà più forte.
Nella speranza che nel frattempo cambi qualcosa nel mondo della ricerca italiana…
Infatti ho detto che mi piacerebbe, ma rientrare sarà un’impresa dura. I miei amici che sono già pronti a tornare si sentono dire che non ci sono posti, né soldi per la ricerca. Le ultime elezioni politiche hanno scosso molto noi italiani all’estero e abbiamo paura che il nostro percorso di rientro sarà ancora più lungo e tortuoso. Più che chiedere a me se voglio tornare in Italia, ti chiedo: l’Italia vorrà farci tornare?
© Gazzetta di Foligno – ENRICO PRESILLA