Quali prospettive per l’Università di Perugia: intervista al prof. Antonio Pieretti
Da tempo si parla di cambiamenti per quanto riguarda l’Ateneo perugino. Per avere informazioni più precise, abbiamo rivolto alcune domande al Prof. Antonio Pieretti, Pro Rettore dell’Università.
In via preliminare le chiedo qual è il suo punto di vista sui processi di cambiamento dell’Università italiana
Con l’entrata in vigore della legge Gelmini (2010) l’Università italiana subirà profondi mutamenti. Per restare agli aspetti più rilevanti, si può dire innanzitutto che è ridotta sensibilmente l’autonomia degli atenei, cambiano radicalmente i criteri che presiedono all’individuazione della governance e l’Università è chiamata a incentivare la ricerca scientifica, a rivedere l’offerta formativa e ad offrire servizi più adeguati agli studenti.
Non le pare che le Università, negli anni passati, hanno introdotto troppi corsi, non sempre sufficientemente qualificati e finalizzati esclusivamente ad attrarre studenti?
Senza dubbio. E infatti, allo scopo di ovviare a questo grave e diffuso malcostume, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca ha introdotto criteri molto rigidi per l’identificazione dei corsi e dei docenti chiamati a ricoprirli. Al fine poi di garantire un adeguato controllo all’interno dei singoli atenei, ha introdotto un organismo di valutazione che deve render conto al Ministero stesso. La programmazione dell’offerta formativa sarà sottoposta anche al vaglio degli studenti, che potranno esprimere un parere motivato sia nei consigli di studio, sia nel Senato accademico. Da molti queste misure sono ritenute restrittive e punitive; per quanto mi riguarda le ritengo utili, perché possono rappresentare uno stimolo per ripensare il ruolo delle Università. Non va peraltro dimenticato che la legge Gelmini impone di dare nuovo impulso alla ricerca scientifica e che gli atenei potranno disporre di maggiori o minori risorse in proporzione ai risultati che otterranno in questo campo.
Quali effetti produrranno sulla qualità dell’Università i provvedimenti adottati?
In primo luogo determineranno un ripensamento consapevole e responsabile dei corsi di studio, una riduzione delle sedi universitarie e una loro aggregazione su basi regionali, se intendono sopravvivere. In secondo luogo, costringeranno le Università a fare scelte molto oculate sia sotto il profilo dell’offerta formativa sia dal punto di vista della ricerca scientifica. Solo a condizione che siano virtuose, cioè che non abbiano debiti e investano le risorse finanziarie in modo adeguato, potranno usufruire dei finanziamenti ministeriali. Ma, siccome si può presumere che questi saranno progressivamente ridotti, si aprirà una forte competizione tra tutti gli atenei e riusciranno a sopravvivere soltanto quelli che potranno attingere risorse da programmi europei o nazionali, nonché dalle realtà locali, dalle aziende, ecc.
È difficile nascondersi che tutto ciò comporterà dei rischi, ma è l’inevitabile conseguenza del cattivo uso che in genere gli atenei hanno fatto dell’autonomia. D’altro canto, il Paese versa in condizioni tali che non potrà finanziare le Università secondo le forme e le modalità adottate in passato.
Qual è la situazione in cui si trova l’Università di Perugia?
È sicuramente meno grave di quella di altri atenei, che sono afflitti da pesanti debiti e da ridotte disponibilità finanziarie. Allo stato attuale, inoltre, riesce a disporre di un’offerta formativa che costituisce ancora un elemento di attrazione per gli studenti. Sul piano della ricerca, infine, rientra tra i primi dieci atenei italiani. Ma queste condizioni sono in evoluzione e tendono al peggio. Sull’ateneo perugino grava il fardello di un numero elevato di studenti in ritardo con gli esami, che lo penalizzeranno gravemente, ai fini del finanziamento, perché dal Ministero sono considerati “non attivi”. Salvo rare eccezioni, come quelle rappresentate da alcune Fondazioni bancarie, non può contare su risorse provenienti dall’esterno. A rendere più preoccupante la situazione contribuiscono, da un po’ di tempo a questa parte, i tragici eventi che hanno sensibilmente scalfito l’immagine di un’Umbria tranquilla e al riparo dal malcostume che imperversa su gran parte del territorio nazionale.
Hanno ancora valore i corsi di studio delle facoltà umanistiche nella formazione delle coscienze dei cittadini?
Non esiterei a rispondere affermativamente; resta soltanto da vedere quali contenuti culturali sono in grado di offrire. Da alcuni anni a questa parte, si è fatta strada nel nostro Paese l’idea che, per colmare presunti ritardi rispetto soprattutto ai paesi extra-europei, sia necessario incentivare gli studi scientifici e ridimensionare quelli umanistici. Ovviamente chi sostiene questa tesi o è in malafede o è ignorante, cioè o è mosso da pregiudizi ideologici oppure misconosce il ruolo centrale che rivestono le humanae litterae nella tradizione culturale dell’occidente. Va peraltro detto che gli stessi studi scientifici oggi risentono dell’unilateralità che li ha contraddistinti nel passato e richiedono integrazioni provenienti dall’ambito umanistico. Così, per esempio, la medicina, in quanto è chiamata a confrontarsi con il problema della vita e della morte, ha bisogno del contributo che può provenire dalla filosofia, dalla psicologia, dalla sociologia, ecc. Ne costituisce una chiara testimonianza la bioetica, la quale evidenzia che, quando è in gioco il senso della vita, non è sufficiente la figura professionale, qualificata in senso tecnico, perché occorre compiere scelte che vanno al di là della competenza specifica che questi può esprimere. Un’analoga considerazione vale per l’economia, la politica, l’ingegneria, l’informatica, ecc. Solo dal contributo che proviene dalla collaborazione tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche la vita può essere riguardata nella complessità delle sue articolazioni.
Quali prospettive aprono gli studi umanistici?
Se ci si ferma ai modelli tradizionali, direi che non esistono prospettive. L’insegnamento in larga parte è precluso e la possibilità della ricerca è solo una chimera. Si dimentica tuttavia che chi proviene dall’area umanistica ha acquisito una capacità critica e gli strumenti tecnici per fare molte cose. Gli resta preclusa la possibilità di impiegare le proprie risorse, perché, pur essendo il Paese che possiede il 45% del patrimonio culturale mondiale, non si preoccupa di salvaguardarlo e di farne uno strumento di crescita e di sviluppo. Non basta aprire un museo; da solo non è sufficiente, prima bisogna creare una sensibilità, una cultura e un gusto artistico. Inoltre occorre attivare al suo interno percorsi formativi attraenti, che solo chi ha una formazione umanistica può garantire.
Quale posto riserva oggi alla filosofia?
Credo che la risposta venga dal momento storico che stiamo vivendo. La crisi in cui ci dibattiamo, infatti, non è legata soltanto all’economia e alla finanza, o all’incapacità della politica di svolgere la funzione di guida che pure le compete, ma ancor più alla mancanza di un sistema di priorità e di valori a cui fare riferimento. In qualche modo, cioè, non sappiamo più verso quale direzione muoverci, oppure non vogliamo renderci conto che non è più possibile perseguire quella a cui ci siamo abituati. Ciò che oggi si richiede è un profondo mutamento culturale che culmini in un ripensamento del progetto di vita e quindi del ruolo che si intende riservare alla scienza, alla tecnica, all’economia e alla finanza. Ci troviamo ad una svolta storica in cui il modello culturale offerto dall’occidente non è più adeguato, come non lo è neppure quello che si è affermato in oriente. Non è all’insegna di un capitalismo sfrenato e ancor meno di una logica degli affari che si può sperare di far fronte all’attuale deriva. Occorre piuttosto dare un seguito a quanto è contenuto nella Carta dei Diritti Umani, la quale prevede che la persona sia il paradigma di riferimento per qualsiasi scelta che i popoli e singoli individui intendano compiere. Di tutto ciò il filosofo è pienamente consapevole, perché è abituato a riflettere, a ragionare, a guardare le cose nella loro complessità e quindi a non lasciarsi suggestionare soltanto da ciò che è prevalente e dominante. Ovviamente non intendo alludere al filosofo “dal pensiero debole”, che è solo una metafora dell’uomo che ha rinunciato a pensare, ma mi riferisco al filosofo che sente il peso della propria responsabilità civile e sociale e legittima la propria esistenza costituendo “la coscienza del proprio tempo”.
È ottimista?
Come filosofo e come educatore non posso che essere ottimista. Con questo non pretendo di avere ricette per salvare il mondo, però presumo di possedere le chiavi per interpretarlo e per proporre soluzioni. Del resto, nel mondo americano si richiedono filosofi per elaborare progetti, per dimostrarne la coerenza e la fattibilità, oltre che per selezionare il personale adatto a realizzarli. E questo perché il filosofo ha la capacità critica di capire le persone, di intercettarne le esigenze, di aiutarle nell’individuare i percorsi e di fornire gli strumenti logici indispensabili per orientarsi nelle loro scelte. Tutto ciò è fondamentale in quanto per le aziende ciò che fa la differenza è la capacità di utilizzare le competenze tecniche di cui si dispone, la flessibilità nell’impiegarle, l’attitudine a servirsene per l’innovazione.
Rispetto a quanto detto, però, mi resta un inquietante interrogativo: quando l’Italia e l’Europa avranno una classe politica meno miope e meno impegnata a salvaguardare gli interessi di bottega? Ci sarà un giorno in cui il bene comune tornerà ad essere al centro dei dibattiti parlamentari?
© Gazzetta di Foligno – MARA TROIANI