Suor Giuseppina, nostra concittadina e sorella della “Piccola Famiglia dell’Annunziata”
Il 13 febbraio 2012 si è aperto l’anno di iniziative promosse dalla Chiesa bolognese e dalla “Piccola Famiglia dell’Annunziata”, in occasione del centenario della nascita don Giuseppe Dossetti. Nel quadro delle manifestazioni il 9 Giugno 2012 si è tenuto a Bologna il Convegno sul tema: Don Giuseppe e la sua famiglia monastica.
A suor Giuseppina che dell’ordine fondato da Don Dossetti è parte integrante abbiamo chiesto di illustrarci le finalità della “Piccola Famiglia dell’Annunziata” e di parlarci della sua personale esperienza di suora.
Giuseppina Pioli, nata a Foligno nel 1959, comincia un cammino col Signore nel gruppo giovani della sua parrocchia di S. Maria Infraportas, ai tempi di don Domenico Fedeli, Padre Giuseppe Melillo e padre Bruno Pennacchini. Un’esperienza che diventa diocesana, confluendo nel gruppo “S. Giovanni dell’Acqua” (dall’omonima chiesa in cui si riunivano giovani provenienti da varie parrocchie), centrata sull’Eucaristia, sullo studio della Bibbia e sull’impegno con i più piccoli e i più poveri, insieme a Rolando e Lola, Elisena, don Decio.
Sono i primi anni, fecondi e luminosi dell’episcopato di mons. Giovanni Benedetti, all’insegna dell’attuazione del Concilio nella nostra diocesi, anni di comunione ecclesiale, e di riscoperta della Bibbia alla scuola di Betori.
Oggi fa parte della Piccola Famiglia dell’Annunziata fondata da don Giuseppe Dossetti con la paternità dell’allora arcivescovo di Bologna, card. Lercaro: una comunità monastica inserita nella Chiesa locale, che nasce e si rigenera ogni giorno nella Liturgia e nella Lectio divina sul capitolo quotidiano della Scrittura, vincolo costante di unità e di pace dell’intera comunità.
Dopo essere stata nella sede di Montesole, teatro delle stragi naziste di Marzabotto, e in Giordania, attualmente è nella sede calabrese.
Quale particolare ricordo ha dell’esperienza vissuta con don Giuseppe Dossetti?
Ho conosciuto personalmente don Giuseppe Dossetti, il nostro fondatore, solo gli ultimi anni della sua vita, e il ricordo che porto nel cuore è forse diverso dall’immagine pubblica che si ha di lui, dalla Resistenza alla Costituente, alla partecipazione al Concilio con il cardinal Lercaro, alle grandi liturgie della Parola all’Abbazia di Monteveglio, al suo intervento, infine, dopo anni di silenzio, in difesa della Costituzione, negli anni ’90.
Il ricordo che io ho di lui è la testimonianza di un monaco: un uomo mite e compunto, che ha ricercato per tutta la sua vita, nella Chiesa, il volto del Signore e nell’obbedienza si è lasciato conformare a lui.
Nella lettera agli Ebrei, che stiamo meditando in comunità in questo tempo, è scritto: “Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la Parola di Dio. Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la fede” (Eb.13,7).
In questo cammino di spoliazione sta tutta la grandezza dell’uomo, fatto a immagine di Dio, e anche la speranza di poter guadagnare anche noi un posto ai piedi di Gesù!
Quali sono le caratteristiche del suo ordine religioso?
La comunità monastica, la Piccola Famiglia dell’Annunziata, di diritto diocesano, legata alla Chiesa di Bologna dove è nata, composta di due rami, fratelli e sorelle,: una diaconia silenziosa di preghiera nel cuore della Chiesa locale.
La sede canonica è nel comune di Marzabotto, a Montesole, proprio nel luogo delle stragi naziste contro una popolazione inerme.
La nostra “parrocchia” è questa gente, e tutti quelli che, come loro, in tutto il mondo sono così, vittime innocenti, e in mezzo a questi nostri fratelli offriamo anche noi la nostra vita per la pace che viene dall’alto.
Siamo in Medio Oriente, in Giordania proprio sotto il monte Nebo, e in Palestina nei territori occupati, vicino a Ramallah, in due piccole parrocchie di cristiani arabi. A Ma’in, in Giordania, ad Ain-Arik in Terra Santa, per raggiungere anche l’inserimento in una sola terra di due popoli, in cerca di pace e riconciliazione.
Poi una piccola presenza in Calabria, terra splendida e ospitale, ancora profondamente permeata dall’influsso dell’Oriente bizantino, ma profondamente ferita dal “cancro” della ‘ndrangheta, e dall’esodo dei giovani e delle sue forze migliori. Noi invece abbiamo fatto l’esodo inverso, dal nord al sud, per inserirci in questa Chiesa.
Oggi la fedeltà non è più vista come un cardine importante nelle relazioni. Cosa rappresenta la fedeltà nella sua vita? Quali le “armi” per difenderla?
Anche qui si tratta di ripartire da Dio: è Lui che è fedele in tutte le sue opere, e noi possiamo aggrapparci alla sua fedeltà, e in Lui essere saldi, nonostante tutto, e così portare frutto.
La fedeltà, nel cenobio monastico, prende il volto della stabilità.
Così recita la nostra Regola: “ È voto di stabilità: per fede e gratitudine, verso l’unica grazia che a tutti e a ciascuno è data nella comunità, per la quale siamo stati afferrati da Cristo Gesù, e per la quale siamo potati e lavorati finché il corpo della nostra miseria sia fatto conforme al corpo della sua gloria”.
La stabilità ci dà di poter stare sotto, saldi nel Signore, di amare con fortezza, superando delusioni e ferite, di vedere il fratello come grazia necessaria al mio cammino di conversione e di conformazione al Signore.
Le armi più potenti sono la supplica al Signore, quando la via si fa stretta, e il perdono fraterno, dato e ricevuto, ogni giorno: non tramonti il sole, sta scritto!
L’inaridimento culturale degli ultimi anni ha favorito anche uno svilimento delle aspirazioni, spesso le figure accattivanti proposte dalla tv diventano per una ragazza modelli da seguire. Quale donna suggerirebbe ad una giovane, come maestra a cui guardare per la realizzazione di una vita piena?
A questa domanda non saprei come rispondere… noi non abbiamo neanche un televisore!
Allora quale modello da seguire?
Shahbaz Bhatti, il ministro per le minoranze pachistano ucciso nel 2011, nel suo testamento spirituale dice: “Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù”: il posto ai piedi di Gesù, cioè essere in comunione con Lui, vivere della sua vita, avere i suoi pensieri e i suoi sentimenti, è la via per essere felici, per una pienezza di vita che nessuna tribolazione potrà mai toglierci, perché è perdendo la propria vita giorno per giorno per amore che la si ritrova in pienezza e la si può donare anche agli altri.
Penso a tutte le profughe irachene che in Giordania vengono a pregare nella nostra chiesa, alla forza della loro fede, l’unico bene che è rimasto loro. Penso qui nel sud dell’Italia a Lina, a Filomena, a zia Nina… che vivono con una grande dignità e pazienza, col cuore grande e una grande fiducia nel Signore, pur nella povertà e nella fatica della vita, e sono nella pace e sanno trasmetterla.
Qual è a suo avviso oggi il ruolo della donna, laica o consacrata, all’interno della Chiesa?
Per la Chiesa di oggi e di tutti i tempi rimane l’esempio e il modello della prima comunità cristiana, così come Luca ce la descrive negli Atti degli Apostoli: tutti perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù. In questa moltitudine che accoglie la Parola non c’è un ruolo della donna in particolare, come non c’è accenno nel modello della Chiesa apostolica. Ci sono belle figure di donne credenti: di Lidia, per esempio, commerciante di porpora che Paolo incontra a Filippi, si dice che il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo.
Anche la speranza di poter guadagnare anche noi un posto ai piedi di Gesù!
Quali sono state le esperienze nella sua famiglia d’origine, che hanno favorito la scelta per la vita consacrata?
Ogni scelta di vita è una vocazione: è Dio che chiama, a noi spetta semplicemente rispondere, e rispondere con tutte le nostre forze, per essere felici.
Nella mia famiglia di origine credo abbia favorito la crescita di questo seme che Dio mi aveva messo nel cuore, anzitutto una grande apertura, generosità, e disponibilità verso chiunque fosse nel bisogno, di qualunque tipo; penso soprattutto a mia madre. ricordo che, agli esami, portai come argomento a piacere la questione palestinese, o quella meridionale, come riflesso di ciò che stava a cuore a mia madre.
Poi c’è stata la grande prova della malattia e della morte della nostra sorella più piccola: un dolore che ci toccava da vicino, per cui non c’era soccorso, e un dolore innocente.
Il dolore innocente spiazza ogni risorsa, risposta e sapienza umana, rimane solo Dio e la sapienza della sua croce. Se la si accoglie docilmente, tutto ciò che è dis-grazia dischiude la Grazia dell’incontro con il Signore, e la possibilità, in Lui, di offrire la nostra vita per molti, per tutti. So che questo non è scontato, che non è così per i più, anzi, la croce scandalizza e allontana da Dio: per questo il dono che mi è stato fatto è tanto più esigente!
Poi in ultimo, la bella testimonianza di mia nonna Marianna, che ha vissuto con noi fin quasi a 100 anni, che ha trascorso la sua vecchiaia pregando di continuo: era il suo modo di continuare ad occuparsi di noi, di farci del bene, e noi ci sentivamo al sicuro, custoditi dalla sua preghiera.
© Gazzetta di Foligno – NICOLINA RICCI