La città è il bene comune
Continua il dibattito sul futuro della nostra città. Restiamo aperti al confronto
L’estate infiamma la polemica politica cittadina, con spreco di male parole (“colpi di sole”, “sciacalli”, ecc.) e notevole risparmio di idee. Proprio il contrario di ciò che servirebbe. Perché novità vere – almeno due – bussano alla porta, e con esse la politica dovrebbe cercare di fare i conti. La prima è la durata della crisi. Essa si è presentata col volto dell’emergenza finanziaria ma sta producendo effetti a cascata e cambiamenti di lunga durata, e rimette in discussione – insieme a tante altre cose – il modello di sviluppo dell’Umbria e quello della nostra città. Un modello che potremmo, molto sommariamente, rappresentare come un veicolo a tre ruote: la prima è un solido nucleo di imprese innovative, soprattutto nei settori della meccanica fine e dell’aerospazio; la seconda un vasto comparto di pubblico impiego (sanità, scuola, Comune, caserma, enti, uffici periferici dello Stato), che garantisce i servizi ai cittadini, ma anche il reddito delle famiglie e quindi una significativa domanda di consumi; la terza è data dall’insieme delle forze riconducibili al ciclo dell’edilizia: imprese estrattive e delle costruzioni, studi tecnici, rendita fondiaria, fornitori, artigiani, ecc. Ma se l‘impresa innovativa ha avuto una storia fatta anche di contributi pubblici ma sostanzialmente indipendente dal sistema politico locale, il discorso cambia per le altre due “ruote” dello sviluppo: il pubblico impiego ha rappresentato infatti – anche con qualche distorsione – un importante fattore di costruzione del consenso; ed il sistema di relazioni ed interessi legati al ciclo dell’edilizia ha di fatto contribuito a “governare” la crescita della città, concertando con la burocrazia politico-amministrativa le principali (e talvolta discutibili) scelte urbanistiche. Si sono così invasi terreni irrigui costruendo, negli ultimi decenni, una città sovradimensionata, piena di case vuote, con alti costi di gestione di servizi e infrastrutture (strade, rifiuti, trasporto pubblico, ecc.) e poco attenta al risparmio delle risorse, a partire dai suoli. Ebbene, mentre l’industria meccanica mostra, pur con qualche sofferenza, di reggere all’impatto della crisi, gli altri due settori sono radicalmente rimessi in discussione dalla tenaglia rappresentata dal taglio della spesa pubblica e dall’esaurimento della bolla edilizia. In concreto: meno opportunità di investimento, meno posti di lavoro, meno redditi per le famiglie, meno servizi per i cittadini, meno sostegno per chi ha di meno. Sarebbe dunque il momento di chiedersi se non si possa affiancare all’industria innovativa un diverso progetto di città, fondato (cito solo i titoli) su volumi zero, bioedilizia, energie rinnovabili, mobilità dolce, emissioni zero, agricoltura di qualità, tutela della salute, economia della conoscenza, cultura, turismo sostenibile. Domanda impegnativa (tanto più in assenza di una politica economica del governo nazionale), cui non si può rispondere (né in un senso né nell’altro) con degli slogan; ma che proprio per questo meriterebbe una discussione organizzata, ampia, appassionata. Vedo invece che il Sindaco liquida come “personalismi” le sollecitazioni in tal senso di alcuni consiglieri della sua maggioranza (e del suo partito). E qui veniamo alla seconda novità, il “vento di cambiamento” che si è espresso nelle elezioni amministrative parziali e poi nei referendum. Non si è trattato tanto di un voto “a sinistra”, quanto di un’affermazione di responsabilità, di competenza diffusa e di civismo. È capitato di incontrare cittadini che, sul tema dell’acqua o dell’energia, ne sapevano più di noi in fatto di bollette, contratti, sorgenti e modelli di gestione, e si impegnavano a promuovere il voto di parenti e conoscenti. Confermando per un verso un dato generale, la disponibilità verso la “buona politica” già intravisto nella mobilitazione degli studenti (dicembre) o in quella delle donne (febbraio), e per l’altro una specifica ricchezza della nostra città, di cui da qualche anno veniamo prendendo coscienza, senza ancora, però, tradurla in una risorsa per la democrazia. Foligno è infatti attraversata da un fittissimo tessuto associativo (culturale, sociale, religioso, ambientalistico, sportivo) che di fatto costituisce l’intelaiatura democratica della vita cittadina e ne garantisce la coesione sociale. Un lungo elenco di associazioni, e dunque di persone, che si prendono cura della città e che hanno relazioni in genere positive con l’Amministrazione comunale. E però, questo è il punto, questo patrimonio civile non si traduce (non ancora) in progetto apertamente discusso e infine condiviso. È come se a ciascuno di questi soggetti fosse stato affidato – un po’ sul modello della curtis feudale – un proprio ambito da coltivare, un orto di cui prendersi cura, riservando ad altri – il ceto politico, gli interessi organizzati – le scelte decisive. Come se ad alcuni toccassero le cento idee specialistiche e un po’ marginali, legate a competenze settoriali, e ad altri – sulla base di una sorta di supercompetenza – il pensiero della città. Ora, non è detto che questa “supercompetenza” ci sia mai stata: se c’era, apparteneva a grandi corpi collettivi (i partiti) che per cento ragioni non ci sono più. Quello che è certo è che, ora come ora, non c’è, e che le idee consolidate dalla pratica, senza tanto bisogno di studiare (“si è sempre fatto così”), paiono le meno adatte a capire e influenzare quello che sta succedendo. Anche per questo, allora, bisognerebbe almeno riconoscere il nuovo profilo di società che sta dietro alla difesa dei beni comuni e le nuove forme della democrazia che le persone in carne ed ossa vengono organizzando sotto i nostri occhi. Non c’è di peggio, credo, per una classe politica, che avere di fronte dei cittadini e scambiarli per semplici elettori.
Fausto Gentili