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Gli anni di piombo

Foligno non può dimenticare

Foligno ha una vivacità culturale che in Umbria ci invidiano. E di questo va dato atto a sindaco e assessori che sanno valorizzare i molteplici apporti di operatori pubblici e privati. Qualcosa di più, però, si poteva fare per le giornate di ricorrenza. Di sicuro, il 9 maggio non doveva passare inosservato in una città che 33 anni prima aveva vissuto un momento di forte unità per non concedere nulla al terrorismo: né al terrorismo nero con la sua strategia della tensione, né al terrorismo rosso con il suo attacco al cuore dello Stato.

Imbarazzo nel parlare di questi anni, difficoltà nel convergere su valutazioni condivise – anche perché non tutta la verità è venuta fuori -, interesse a dimenticare in fretta errori di gioventù e zone grigie di vicinanza stanno gettando un velo di silenzio e di amnesia sulla storia d’Italia negli anni di piombo. Imbarazzo e silenzio potevano essere comprensibili qualche anno fa, non oggi. Un articolo di Rossana Rossanda dopo il delitto Moro, ad esempio, si interrogava sui presupposti ideologici delle Brigate Rosse e li individuava in un “veterocomunismo puro”, che non aveva rinunciato al terrorismo come avevano fatto le organizzazioni storiche del movimento operaio. All’epoca era difficile per l’opinione pubblica di sinistra accettare l’idea che potessero esistere terroristi “comunisti”, ma oggi dovrebbe essere più facile. Come facile è capire l’obiettivo dello stragismo nero rimasto impunito: seminare il terrore tra la gente per rendere impossibile una normale vita democratica. Eppure di questo non si parla. I giovani non sanno. Peggio, devono sentire l’improntitudine di chi conciona sulle Brigate Rosse infiltrate nei palazzi di giustizia, come se Sossi, Calabresi, Coco, Alessandrini, Bachelet e tanti altri non avessero rappresentato il contributo di sangue versato da magistratura e forze dell’ordine per la salvezza della democrazia in Italia. Per non dire di giornalisti, sindacalisti, dirigenti di fabbrica, intellettuali e uomini politici come Aldo Moro: figure nobili, distanti dallo scadimento di un certo ceto dirigente di oggi. E pure su questo, a Foligno, non si è detto nulla, anche se le celebrazioni dell’Unità si prestavano a ricordare il sofferto ventennio in cui, alla fine, si riuscì a superare la crisi della democrazia italiana. “L’assassinio di Aldo Moro e tutti gli altri compiuti per mano dei terroristi – ha scritto Ginsborg – se non rifondarono la repubblica certo non avvennero invano. Gli anni di piombo produssero un mutamento profondo nell’atteggiamento di un’intera generazione verso la violenza. Man mano che si susseguirono gli omicidi, i fautori della violenza “rivoluzionaria”, parte così interna dell’esperienza del ’68, rimasero isolati tra gli stessi giovani. Alla fine i problemi più gravi della Repubblica non erano stati risolti, ma si era abbandonata l’idea di risolverli con la forza”. Oggi, il problema è come abbandonare l’idea che la politica possa continuare a reggersi sulla rissa, il dileggio dell’avversario, la sciatteria verso le istituzioni democratiche. Se ne deve parlare, soprattutto con i giovani.

© Gazzetta di Foligno – ANTONIO NIZZI

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