Sulla scuola pubblica
Al dibattito aperto dalla Gazzetta (n. 11 del 20 marzo) interviene Mons. Vittorio Peri, professore di Diritto ecclesiastico e canonico presso l’Istituto Teologico di Assisi, con alcuni rilievi critici alla lettera “Un’insegnante arrabbiata” di Maria Pia Giorgetti. Pubblichiamo i passaggi salienti.
Scuola pubblica e scuola privata
Il primo rilievo riguarda la diffusa – ma incredibile, per un’insegnante! – non conoscenza del sistema scolastico italiano che non ammette il falso dilemma “scuola pubblica” o “scuola “privata” che è fondato sulla concezione di uno Stato totalizzante per la quale tutto ciò che non è statale, è da considerarsi privato. Ma quest’arcaica idea pan-statalista è errata per il semplice fatto che lo Stato non è il titolare del bene, che “pubblico” è tutto ciò che risponde ad un diritto fondamentale dei cittadini, che un servizio è detto pubblico sulla base non di chi lo gestisce (il profilo soggettivo), ma delle finalità che persegue (il profilo oggettivo). In ambito scolastico, pertanto, la distinzione corretta non è tra “scuola pubblica” e “scuola privata”, ma tra scuola “statale” e “non statale”, o paritaria.
Quest’ultima – quale che ne sia il gestore -, è pubblica per la semplice ragione che rende un servizio culturale a tutti coloro che intendono fruirne. L’alternativa tra “statale” o “privata”, del resto, non ha fondamento costituzionale. La nostra Carta parla infatti di scuole “statali” e scuole “non statali”, come si evince dall’art. 33 (2° e 4° comma). Per questo motivo la legge 62/2000 sulla parità scolastica tra scuole statali e non statali (Governo Prodi, su proposta del ministro Berlinguer) parla di un sistema scolastico integrato che è sempre pubblico, quali che ne siano i gestori: Stato, enti locali, istituzioni religiose, privato sociale ecc. Per la legge 158/2001, poi, è attribuito lo stesso punteggio per il servizio svolto nell’uno e nell’altro tipo di scuola.
Il diritto alla scelta educativa
Un secondo rilievo riguarda la “libera scelta” del tipo di scuola da parte dei cittadini, i genitori, in particolare. La scrivente condivide questo principio, ma mostra di non avere idee chiare quando rivendica la destinazione delle risorse economiche alle sole scuole statali richiamando anche – ma a sproposito – la nota clausola “senza oneri per lo Stato” riferita alle scuole non statali.
Bisogna anzitutto chiarire che, essendo dei cittadini il diritto allo studio, l’erogazione dei contributi pubblici atti a renderlo effettivo è ad essi dovuta in quanto cittadini, al di là del tipo di scuola che intendono frequentare. In Italia l’esercizio di questo diritto non è ancora pienamente libero, dato che le famiglie che scelgono le scuole non statali debbono pagare l’istruzione dei figli due volte: la prima, attraverso la normale dichiarazione dei redditi; la seconda, mediante le rette a favore delle scuole prescelte senza le quali non potrebbero sopravvivere. Pochi ricordano che la Costituzione afferma chiaramente l’obbligo dello Stato di rendere effettivo quel naturale diritto di scelta: “La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole statali” (art. 33, comma 4). Il cuore del problema riguarda pertanto non tanto il finanziamento alle scuole paritarie, ma la necessità di rendere effettiva quella libertà di scelta educativa da parte delle famiglie, costituzionalmente garantita. Una libertà assicurata in ogni Stato europeo, eccettuato il nostro.
Senza oneri per lo Stato
L’ostacolo per la eliminazione di questa anomalia italiana nel panorama legislativo europeo deriverebbe, secondo alcuni, dalla nota clausola contenuta all’art. 33 della Costituzione: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza oneri per lo Stato”. Ma questa posizione non è affatto fondata. Il comma in questione presenta infatti due parti. Nella prima, afferma un diritto: quello di enti e di privati a “istituire” scuole e istituti di educazione. Nella seconda, pone un divieto: quello di dare ai predetti soggetti contributi finanziari per la “istituzione” delle loro scuole. Tali contributi, infatti, sarebbero per lo Stato degli “oneri”. Circa questo divieto presento due osservazioni. La prima è che la clausola tratta del momento “istitutivo” delle scuole, cioè della loro concreta fondazione giuridica (istituzione, erezione, costruzione materiale) e non degli altri aspetti della vita scolastica (gestione, ordinaria amministrazione, conduzione ecc.) che sono successivi e ben diversi dalla istituzione della scuola. La clausola è restrittiva e, secondo la corretta interpretazione insegnata in qualsiasi scuola giuridica, soggiace a stretta interpretazione. Leggervi pertanto divieti al di là di quello che essa dispone, significa manipolare il testo costituzionale. In breve: gli eventuali contributi statali non sono “oneri”, ma semplici “spese”. La seconda osservazione è che i due sostantivi – oneri e spese -, non sono affatto equivalenti. L’onere è un aggravio, un costo aggiuntivo in un qualsiasi bilancio: familiare, aziendale, statale ecc. La spesa è invece un costo previsto. Per la clausola in oggetto sono da considerarsi oneri inammissibili solo i contributi per la “istituzione” delle scuole non statali, non anche gli eventuali contributi erogati per la loro “gestione”. La migliore conferma della correttezza di questa lettura del comma fu data in sede di Assemblea Costituente da uno dei firmatari del medesimo: il liberale Corbino che, nella seduta del 29 aprile 1947, rispondendo ai deputati Gonella e Gronchi disse: “Noi non diciamo che lo Stato non potrà mai intervenire a favore di istituti privati; diciamo solo che nessun istituto privato potrà mai sorgere con il diritto di avere aiuti da parte dello Stato. Ma una volta “sorto”, nulla potrà mai impedire che lo Stato intervenga in suo favore”.
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