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150 anni guardando al futuro

Le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità nazionale dovrebbero essere una felice occasione per tutti, eppure stenta ad emergere una memoria condivisa e un futuro da condividere. Non è che manchino conferenze e dibattiti, celebrazioni e incontri. Piuttosto c’è il rischio di dover rievocare un passato, percepito dai più e specialmente dai più giovani, come estraneo e distante.

Perché – ci chiediamo – è così difficile condividere e celebrare insieme i momenti fondativi della nostra tradizione democratica, quando abbiamo tante altre feste più partecipate all’ombra dei campanili o nelle piazze municipali? Non c’è forse la responsabilità del nostro sistema formativo e delle forze politiche di ogni tendenza, che hanno sottovalutato la centralità dell’educazione alla democrazia? E che dire delle nuove armi di distrazione di massa – Tv in primis – che hanno concorso a indebolire la responsabilità per la cosa pubblica e lo stesso senso dello Stato? Ma in mancanza di un ethos collettivo condiviso e di una visione grande sul futuro, le rievocazioni dei 150 anni non rischiano di farci bighellonare oziosamente nel passato?

L’Italia è rimasta forse una nazione incompiuta: dopo il paradosso di un popolo diviso dalla sua stessa vicenda unitaria, è restata difettosa l’opera unificatrice degli spiriti oltre che delle strutture. Si potrebbero spiegare così quella certa indifferenza verso le istituzioni e il senso di cittadinanza, l’insofferenza alle regole e al bene comune, gli egoismi corporativi o localistici, che, oggi più che mai, rendono l’Italia una nazione frammentata e incerta. Ma quale dovrebbe essere il sentimento capace di accomunare oggi gli italiani? Dopo l’unità, lo scontro ingaggiato dall’anticlericalismo ebbe l’effetto di erodere l’unico sentimento – quello religioso di appartenenza alla Chiesa – che accomunava le masse popolari, aprendo dei vuoti sul piano civile che inutilmente altre religioni secolari hanno cercato di colmare. Oggi, sotto l’egemonia di un liberalismo radicale che tutto relativizza e svuota, sta venendo meno quella cultura politica che era stata capace dal dopoguerra di guardare lontano e di chiamare i cittadini alla partecipazione. Da qui il rischio di finire sotto un’élite – del pensiero, della comunicazione, o del potere economico – che non ha interesse a trasmettere i valori e le regole della democrazia. E così si indebolisce il senso di appartenenza e di solidarietà che rende “solida” una comunità. Così avanza il tirare a campare e l’affidarsi, soprattutto dei giovani, agli illusionisti del momento, sovrabbondanti come non mai nell’era dell’immagine. C’è bisogno di futuro, non da sognare, ma da studiare, da costruire. Questo dovrebbe essere il nuovo sentimento condiviso, sia dai cittadini che dai gruppi dirigenti: far crescere una forte capacità di riforma, lavorare per un’altra politica che lasci perdere il populismo e per un’altra generazione di politici capaci, ad esempio, di investire in formazione soprattutto per i giovani. Una riflessione attenta sull’Unità d’Italia, la sua storia e il suo futuro deve impegnarsi prima di tutto su questi nuovi orizzonti. Anche a Foligno.

© Gazzetta di Foligno – ANTONIO NIZZI

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