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I tatuaggi tribali

Via Oberdan, sotto il mio studio. Madre e figlia escono dal parrucchiere. Poso lo sguardo sull’incarnato roseo dell’adolescente deturpato da frasi in cirillico e fregi floreali, segni di una dimensione fenomenologica che caratterizza la nostra travagliata contemporaneità. È proprio vero che certi tormenti corporali costituiscono l’ermeneutica più adeguata per una lettura dei tempi. La zelante genitrice, una mia vecchia conoscenza, si esalta per i tatuaggi della figlia destando la mia perplessità. Le ricordo l’epoca prediletta in cui, dopo le liete serate dei veglioni del liceo, i suoi décolleté mi facevano fantasticare amori notturni. In quel tempo ogni possibilità amorosa era circoscritta alle ore pomeridiane. Allora la mia amica si gloriava delle sue ascelle lanose e del vigore scomposto dei suoi vent’anni nutriti d’abbacchio. I tatuaggi non avevano fatto loro comparsa se non nella popolazione carceraria e l’estetica inadeguatezza ancora non rovinava gli appetiti delle giovinette. Sceglievamo i nostri amori nei giorni di sole, come in una bonaria commedia dialettale. Quando il maglioncino delle figlie – comprato da Righi o da Ceccherini – passava di moda le madri lo riponevano a malincuore sotto naftalina. Con i tatuaggi tribali di quelle disgraziate come pensano di fare?

GIOVANNI PICUTI

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