Il presepe della speranza
Storia di una famiglia del Sud Sudan in fuga dalla guerra, dalla fame e dalla violenza: a Foligno il “presepe” di Agut, matriarca di 50 anni rifugiata a Foligno con 7 figli e 5 nipoti.
A parlare con Mary, diciannovenne originaria del Sud Sudan, nata e vissuta in un campo profughi fino a febbraio 2018, vengo subito colta da un’impressione: quella di avere davanti una ragazzina determinata e felice. Come molti suoi coetanei italiani non riescono ad essere. La conosco all’Arca del Mediterraneo, struttura ai portici delle Conce gestita dalla Caritas, dove la accompagnano Elisabetta Tricarico, responsabile dell’Ufficio Immigrazione della Caritas Diocesana di Foligno, e Giulia Gurisatti, operatrice. Convinta di aver incontrato una storia bella e meritevole di essere raccontata, trovo invece – in questo tempo di Avvento – un presepe: quello della matriarca Agut, madre di Mary, che dopo aver attraversato guerra, fame e violenza trascorrerà il suo primo Natale di pace a Foligno. Una storia di coraggio al femminile, che parte da lontano e della quale Mary è l’ultima pagina, ancora tutta da scrivere. A diciannove anni il suo più grande desiderio è studiare e avere un diploma; è al quarto anno all’Istituto professionale Orfini e vorrebbe proseguire gli studi fino all’università per diventare infermiera. “Spero di farlo insieme a Cristo che mi dà la forza, poi vorrei avere un buon lavoro con cui aiutare la famiglia. Se riuscissi a mettere da parte del denaro vorrei aiutare orfani e bambini di strada” dice, lasciandomi a bocca aperta. Aggiunge: “Quando ero in Africa avevo un caro amico orfano di padre e di madre e io stessa ho conosciuto questa difficoltà, avendo perduto mio papà. I bambini senza genitori vivono in strada e muoiono ogni giorno per fame e freddo e vorrei ce ne fossero sempre di meno”.
“Al campo profughi – ricorda – ci intrattenevano con sport, piccole recite e canzoni che favorissero l’integrazione: eravamo bambini di diverse nazionalità tra cui Sud e Nord Sudan, Eritrea, Etiopia”. Mary pesca dalla memoria ricordi felici dei suoi 17 anni trascorsi nei campi profughi grazie al servizio per i rifugiati dei Gesuiti. Quando ad Addis Abeba le dissero che l’avrebbero portata in Italia con un corridoio umanitario insieme a tutta la famiglia stentava a crederlo: tre mesi dopo era qui. Mary si trova bene a Foligno e nella lingua italiana riconosce la sua più grande difficoltà: partendo dall’Africa con la sua famiglia era convinta di trovare un popolo bilingue e invece il suo inglese non le permette di comunicare neanche con i compagni di classe; comprende bene l’italiano adesso, pur esitando nel parlarlo. Lo scorso febbraio arriva a Serrone, sulla montagna folignate. “Ci colpì molto il freddo” dice Mary ridendo, e subito ricorda la bella esperienza con gli abitanti del paese. “Ci portavano cibo e giochi, venivano a farci compagnia trascorrendo del tempo con noi” ricorda, dipingendo una comunità capace di grande solidarietà e accoglienza. Nel frattempo ci raggiunge Agut, la mamma di Mary. Ha cinquanta anni e sebbene la vita che ha vissuto sia stata piena di difficoltà ai miei occhi sembra una ragazza. È lei la matriarca, madre di sette figli sopravvissuta a minacce, violenze, fame, lutti familiari. Una donna la cui forza spirituale è evidente, nonostante non sappia parlare inglese e non riesca a comunicare verbalmente con me, avendo la figlia come traduttrice da quella che ora suppongo possa essere l’anyua, la lingua nilotica parlata dalla sua etnia, gli Anuak. Agut nasce a Juba, capitale del Sud Sudan, il 31 dicembre di 50 anni fa. Come molti suoi concittadini sperimenta la guerra sin dalla nascita. Figlia di un padre di etnia Azab, arabo del Sudan e di una madre di etnia Anuak non frequenta la scuola, imparando solo a leggere e scrivere il proprio nome. A tredici anni, durante la guerra civile tra il nord e il sud del Sudan, si trasferisce con la madre in Etiopia a Dima, nella regione di Gambella. Qui sua madre si risposa e avrà altri 5 figli. Ma Agut non si sente a suo agio nella nuova famiglia e a 17 anni se ne va. Trasferendosi ad Etang dove si sposa con un uomo dalla cui unione nascono tre figli: Ariet, Ujullu e Abong. Il marito però non si prende cura dei suoi figli e così Agut compie una scelta coraggiosa, tornando con loro a Dima e iscrivendosi al campo profughi.
Qui conosce Simon Idonga Match, anche lui profugo, un ugandese di etnia Lou che vuole prendersi cura di lei e dei suoi tre figli cui darà il proprio cognome. Da Agut e Simon nascono altri quattro figli: Sera, Olami, Mary e Otem. In questo campo si perdono le tracce della prima figlia Ariet, tuttora dispersa. L’ultimo bambino nasce nel campo profughi di Bonga dove la famiglia si era trasferita per seguire Simon nel suo mestiere di insegnante; qui il numero dei componenti cresce ancora perché le figlie di Agut Sara e Abong nel frattempo danno alla luce due bambini ciascuna. Nel 2001 Agut deve far fronte alla morte del marito; resta sola con sette figli, una dei quali dispersa, e cinque nipotini. Al campo profughi una volta vedova e capofamiglia diventa con la sua famiglia bersaglio di aggressioni e maltrattamenti, minacciata di stupro dagli uomini poiché ormai sola e senza marito. Chiede aiuto ai commissari UNHCR e grazie al loro intervento si trasferisce nel 2005 ad Addis Abeba. Qui il contributo dell’Agenzia internazionale per i rifugiati delle Nazioni Unite le basta solo per l’affitto. Poiché profuga riceve qualche sporadica donazione di riso e olio. Figli e nipoti possono studiare frequentando la scuola e accedono a cure mediche. Soffrono però la povertà e la discriminazione nel campo, vivendo in un ambiente violento e insicuro dove subiscono aggressioni. Agut è convinta che il suo secondogenito possa soffrire di disturbi mentali a causa di un pestaggio subito proprio nel campo. Dopo una vita trascorsa nei campi profughi, la famiglia di Agut è selezionata per il trasferimento in Italia attraverso un corridoio umanitario organizzato da CEI e Comunità di Sant’Egidio con i Ministeri degli Esteri e dell’Interno. Nel febbraio 2018 la famiglia atterra all’aeroporto di Roma e da lì viene accolta alla Caritas di Foligno. Agut è felice: sua figlia Mary potrà avere una vita migliore della sua. “Mia figlia – dice – è il mio orgoglio: in Africa le ragazze alla sua età hanno già due o tre figli, spesso senza marito. Lei invece è determinata nello studio e so che ce la farà”. Ma cosa desidera questa madre coraggio per la sua vita, per il suo futuro? Agut sorride. “Voglio ringraziare Caritas – risponde – perché ha aiutato i miei figli e li sostenta: il mio sogno però è quello di trovare un lavoro per poter mantenere da sola la mia famiglia. Non so scrivere né leggere, perciò l’unica cosa che so fare è la domestica, le pulizie di casa. Ecco: il mio più grande desiderio adesso è poter trovare un lavoro”. Un lavoro, cioè la dignità: dopo la salvezza da spettri come guerra fame e violenza è l’autosostentamento l’ultima difficile tappa da conquistare. Ci salutiamo con la promessa che avrei messo a conoscenza di questo suo sogno tutti i lettori della Gazzetta di Foligno i quali, in questo tempo di Natale, sapranno certamente aiutarla nel dare sostanza a un desiderio tanto semplice eppure pieno di senso, affinché la rinascita di questa famiglia possa davvero compiersi.
FEDERICA MENGHINELLA