La silenziosa fine dei tigli alla Carducci
Prima che la pinza idraulica cominciasse ad affettarla, la scuola media “G. Carducci” si ritrovò attorno alunni di ieri e di oggi, dirigenti, gran visir, professori, bidelli di un tempo e più attuali e politically correct ata, elzeviristi e nostalgici. Immancabili i curiosi con l’iPhone. C’erano Garrone e Franti, la maestrina dalla penna rossa e qualcuno giura di aver visto financo Lucignolo (preasinino) e Giamburrasca, Pinocchio col su’ babbo e Pierino scatenato e feroce. Un commiato con i fiocchi. Oggi invece non c’era nessuno. Solo un nevrotico scocciatore gazzettiere. L’uccisione dei tigli nello spiazzo della Carducci non ha avuto testimoni diversi dalla pernacchia zanzaresca della motosega, da un simil bobcat che caricava tronchi e fronde sul camion (e lo faceva silenziosamente, con rispetto direi, segno che il bobcat è sensibile e qualcosa deve aver capito) e dal vostro cronista, appoggiato al cancello esterno, dietro ai vetri nella stanza adiacente a quella dove muore il condannato. Uno stacco sordo dalla voce legnosa e il tracollo della chioma cupoliforme a terra, con una voce d’acqua, uno scroscio di foglie, che mi resta nelle orecchie, ultimo sospiro. Bisognava fare spazio alla nuova scuola, si dirà, ma forse era la scuola che avrebbe dovuto chiedere permesso ai tigli; non sarebbe male, alle volte, ragionare al contrario. Ma siccome l’historia non è magistra di niente, con gli alunni che si ritrova, finiremo come l’isola di Pasqua. Rimboschiranno, si dirà, pianteranno altri tigli. Ma questi non ci saranno più. Hanno profumato e pulito l’aria per oltre mezzo secolo, hanno lenito il rosicchiare immondo delle caverne tubercolari, hanno dipinto autunni che al confronto l’impressionismo è un balbettio, hanno accolto quegli studenti, professori e compagnia che hanno salutato i muri ma che, probabilmente, neppure hanno saputo che tanta vita sarebbe finita, in un fine agosto surreale e sbigottito. Perché un albero non si abbatte, si uccide. E a me dispiace che i tigli della Carducci siano stati uccisi, anche perché un albero non è del comune, della provincia, della regione, del sistema assolato o di Dart Fener: è di tutti, quindi anche mio, e mi dà il nervoso se qualcuno fa qualcosa a ciò che è mio senza chiedermi niente. Verranno altre alberate, mi hanno detto. Ma io faccio ombra dall’altra parte. Chi uccide un albero non ha minimamente il senso del tempo: una parte di me se ne va con quelle architetture grandiose, quei rami immensi che per decenni hanno spiegato i frattali ai cieli invernali, quelle infiorescenze che profumavano l’aria a giugno e con le piogge si esaltavano, cantavano una fragranza che non sentirò più. Verranno (forse) altre alberate, ma per me resta quella voragine, quell’aria slabbrata e sforacchiata che nessuna scuola all’ultimo grido, nessuna novità antisismica, antinevrotica, antiscivolo, antiage e antistress potrà mai colmare. Qualcuno, per intristirmi di più, solfeggerà: c’è «un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante» (Eccl. 3, 2). Il camion porta via i miei tigli. È il tempo dello sdegno.
GUGLIELMO TINI