Prima di partire per un lungo viaggio. Dalla Grecia a Foligno, una mostra in valigia per raccontare gli oggetti di chi fugge
Il bagaglio di pelle campeggia sul tavolo della Social House di Neos Kosmos, aperto e con le cinghie sciolte. Qualcuno sorride, altri corrucciano la fronte tra un tchai iperzuccherato e foglie di vite zeppe di riso. Cos’hai messo in valigia? La domanda li cattura, come un’istantanea in un album di famiglia. La voglia di non tornare più, loro, non hanno certo potuto prenderla, prima di fuggire. Forse perché, prima che la guerra piombasse loro addosso, non avevano mai pensato di dover lasciare casa propria. O forse perché lo spazio nel bagaglio era troppo poco per farci entrare una vita: lacrime, effetti, emozioni.
Qualcuno sale nella propria stanza. Inizia una piccola processione dirimpetto a quella valigia retrò, simbolo sfacciato di un viaggio ancora tutto da pensare.
Il bagaglio inizia a riempirsi: ognuno deposita un pezzo di Siria, un pezzo di Iraq. Piccoli orologi, profumi, ricordi dei genitori che non ci sono più. Un carosello dove ognuno ripercorre la propria storia, un’autobiografia cantata innanzi ad una collezione di oggetti che mai, altrimenti, avrebbe avuto un fil rouge. Qualcuno arrossisce, perdendosi nei ricordi, altri si prendono in giro, scoppiano risate. Fare la valigia è uno strumento per conoscersi, per guardare a quelle parti di noi a cui non possiamo rinunciare. Fare la valigia è un atto intimo. Fare la valigia è dire chi sei.
Siamo tutti in semicerchio, in devoto rispetto, innanzi al bagaglio marrone. Qualcuno sfoglia la Bibbia, che qualcun altro ha riposto: è la prima volta che ne vede una. Ne assapora gli spazi, prova a leggerne qualche pagina.
“Io ho perso la valigia in mare – racconta Mohammed, appena diventato papà -, la barca era troppo piena. Mi hanno chiesto di gettarla”. Tutti tacciono. Qualcuno deposita un accendino nero, regalo della mamma, con incisi i segni delle combattenti curde. Nuha, curdo-siriana, custodisce l’accendino in un cassetto, come a ricordare che sua mamma è sempre lì. Dawood ha 13 anni e due occhi color del mare. Il suo, forse, è uno degli oggetti che pesano di più. Un piccolo orologio di plastica, nero, regalo della mamma prima che se ne andasse in Cielo. “Io ho portato tre oggetti” – racconta una siriana dagli occhi nocciola -: una ciocca di capelli della figlia appena nata, la fascia che le ha cucito quando era incinta e la sua prima ecografia. C’è un nastro rosso e argento che la tiene, quello che si usa in Siria nelle cerimonie di fidanzamento e che il papà recide prima di acconsentire ufficialmente al matrimonio. Jumana irrompe nella sala, occhi sottili e carnagione color neve che la fanno tanto somigliare a un’eschimese più che ad una siriana. Stringe la lettera che le ha scritto il marito da ragazzini. Le altre la prendono in giro, nei loro hijab coloratissimi, chiedono dettagli, ridono, si stringono come bambine. I giocattoli sono i grandi assenti in questo racconto, fatto di valigie, sogni, ricordi. Solo Omar, un bimbo tutto lentiggini, ha portato il suo diaro, dove finge di annotare le giornate in una lingua che non ha mai potuto imparare a scrivere perché la guerra non gli ha mai permesso di andare a scuola.
Asma si affaccia timidamente da dietro la porta. Porta in mano il bakhoor, un unguento profumato, custodito gelosamente in un sacchetto di nylon. È il regalo della mamma rimasta a morire ad Aleppo. La valigia prende il profumo dell’essenza, come a fondere in un unicum tutti quegli oggetti. Come a dire che c’è qualcosa che tiene assieme tutte quelle storie.
Chiudiamo il bagaglio e ci dirigiamo verso il mare assieme a quelle reliquie preziose, quasi a far capire loro che dopo la traversata sono finalmente salve. “Tieni tu per un po’ la mia Bibbia”. Ho quasi timore, sento di avere in mano un grande tesoro.
Qualcuno mi porge dei soldi siriani. Scende una lacrima. “Li ho portati con me, spero di poterli usare di nuovo.”
Gli oggetti citati sono raccontati da una mostra racchiusa in valigia. Chiunque volesse ospitarla può scrivere alla redazione (info@gazzettadifoligno.it)
FRANCESCA BRUFANI