Altro giro, altra porta
Foligno, le cinque del pomeriggio di maggio, in una traversa qualunque di viale Firenze. Un giovane dai capelli neri e dalla carnagione scura – o forse solo dalla faccia sporca – gira in bicicletta. Con una mano guida il manubrio e con l’altra porta il telefonino all’orecchio. Ricorda Insigne mentre scruta con circospezione l’area circostante per poter infilare la porta. Incrocia lo sguardo di un uomo anziano seduto sotto un portico. L’uomo lo scruta e pensa: ma che vorrà questo che passa tutti i giorni alla stessa ora e parla al telefonino? E con chi parla? L’anziano è canuto, ha gli occhi sporgenti, è il signore incontrastato di una scomoda seggiola di plastica bianca messa lì da anni. Di tanto in tanto reclina la testa sul petto e russa per poi svegliarsi di soprassalto a causa di una goccia di sudore che gli scende dalla fronte, di una mosca molesta, di un colpo di clacson. Tra il sonno e la veglia immagina che il giovane sia d’appoggio ai ladri che visitano di continuo le case del quartiere. Il giovane in bicicletta si domanda, chissà se mi ha scoperto? Oppure, cosa vorrà da me questo? Oppure pensa, meglio che me ne vada, m’ha svagato. Mica è reato girare in bicicletta perlustrando case, cancelli, giardini. Passa una ragazza appariscente, i capelli biondi i tacchi esagerati e l’uomo, distraendosi dagli spostamenti del ciclista, rivolge lo sguardo all’intrico delle vene sul suo collo bianco e su quell’immagine, che lo restituisce ad un lontano passato, s’addormenta, per sobbalzare un quarto d’ora dopo, sorpreso dalla scossa datagli su una spalla da un poliziotto votato alla risoluzione di casi intricati: “Hanno rubato nell’appartamento al primo piano, ha visto entrare qualcuno dal portone?”. E l’uomo: “Entrare no, ho visto solo un ragazzo in bicicletta”. Il caso è chiuso, altro giro altra porta.
GIOVANNI PICUTI