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Impressioni d’Africa. Da Foligno in Kenya, volontariato in una scuola per bambini sordo-muti

Lo sognavo da bambina: andare in Africa!
Poi il tempo passa nell’ansia dei mille impegni e succede che quel sogno lo metti inconsapevolmente da parte, nonostante il solo pensarci ti faccia sentire più vivo. Finché un giorno, a 22 anni, capisci che forse è arrivato il momento. Così a fine gennaio sono partita, due mesi dopo la laurea in logopedia. In internet ho trovato un’organizzazione che proponeva progetti di volontariato in Kenya e ho scelto di andare per due mesi in una scuola primaria per bambini sordo-muti. Questa realtà mi è particolarmente a cuore ed ero curiosa di vedere come il problema della sordità venisse gestito in un paese come l’Africa. Ciò che vorrei riuscire a dipingere, però, sono le impressioni provate avendo avuto la fortuna di immergermi un po’ in una realtà così diversa dalla nostra.
Non si può descrivere un paese usando poche parole, non si può pensare di conoscerlo dopo averlo appena guardato con due occhi, in poco tempo. Vorrei davvero essere in grado di trattenere almeno un ricordo, non lasciarlo svanire o sommergere dalla frenesia e dalla stanchezza che invece ritrovo qui, di nuovo a casa. Appena arrivata è l’odore della polvere che mi è restato addosso, mi sembrava di sentirlo ovunque. Per qualche giorno mi è parso di soffocare: le strade di Nairobi erano piene di gente e di confusione, di urla e di colori in caotico movimento. La gente si accorgeva subito della mia presenza, perché noi “bianchi” siamo “Mzungu” e non puoi passare inosservato. Non scorderò lo stupore con il quale le persone mi indicavano, per poi magari avvicinarsi e chiedere come stavo o toccarmi i capelli così soffici, come spesso facevano i bambini della mia scuola. Se all’inizio tutto ciò mi spaventava e non mi faceva sentire al sicuro, spingendomi ad assumere un atteggiamento di difesa, pian piano è invece diventato piacevole, divertente, stimolante. Ho pensato spesso a come possa essere lasciare l’Africa. Significa lasciare un paese dove la vita la vedi in ogni momento per le strade, dove il silenzio non è sinonimo di pace ma forse, piuttosto, di solitudine. L’ho avvertito subito tornata a casa quando guardandomi intorno ho rivisto l’ordine e la riservatezza che tanto mi mancavano i primi giorni in Kenya e che invece mi sono sembrati quasi ingombranti. I media e la tv ritraggono molto spesso un’Africa prosciugata, pietosa, ma quella che ho visto è una terra viva, nella sua quotidianità. E la quotidianità stava in quei teli stesi a terra pieni di merce da vendere, nei tetti di latta, nella polvere ai lati delle strade, nelle pecore, negli asini e un metro dopo negli ingorghi del traffico, nei vestiti colorati alla moda dei giovani in un locale e appena fuori nei bambini con il bicchiere a chiedere elemosina ai passanti, negli smartphone e nelle tv in case dove l’acqua va e viene. Io vedevo contraddizioni, ma le vedevo fluire in maniera spontanea, quasi stessero lì a dirmi: qual è il problema?
Hakuna matata è la risposta: nessun problema. Eppure ci sono. I miei occhi, però, vedevano persone energiche e fresche, in una calma che probabilmente noi occidentali siamo abituati a perdere in situazioni anche molto banali. L’autobus è in ritardo, il semaforo è rosso, qualcuno intralcia la nostra strada e subito l’ansia prende il sopravvento, lo stress e la stanchezza sono la reazione, la diffidenza, la chiusura diventano l’arma. È stato questo a stupirmi di più: la capacità di vivere insieme ai problemi, dentro ad una realtà con i suoi macigni e non contro di essa, non in perenne contrasto. Questa differenza la senti addosso e ti fa sentire leggero, vivo. È stato come assaggiare una pietanza dopo averne sentito a lungo parlare: ho afferrato la forchetta carica di aspettative. Il sapore, però, non è stato quello che immaginavo. Pensavo di assaporare lo strazio di una realtà solo povera ed arretrata, invece ho potuto apprezzare il gusto di una vitalità forte, sincera e allo stesso tempo pacata. Forse è proprio questa la risposta più efficace ad un contesto che a primo impatto definiresti soffocante, se sei abituato a prospettive che lì appaiono tanto innaturali.
L’Africa non è l’Europa ma parlarne in maniera astratta ne enfatizza una visione patetica che invece non ritrovi negli occhi della gente. Il piatto è semplice, ma speziato, puoi gustarne la peculiarità se metti da parte la pressante esigenza di trovare differenze. Vorrei conservare e condividere la consapevolezza di questa autenticità, tale nonostante le difficoltà, forse grazie ad esse. È un angolo prezioso quello in cui i macigni diventano la propria forza. Forse il vero augurio che faccio a me stessa e a chiunque voglia conoscere qualcosa di nuovo è quello di ricordare sempre di rispettare ciò che si sta per assaggiare, cogliendone i sapori delicati, rudi, amari senza la presunzione di doverli cambiare o salvare in virtù di un modello mentale distante e differente. Semplicemente gustarli, camminarci dentro e crescerci insieme.

CLAUDIA FUSARI

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