La ripa del fiume
Scenetta a cui ho assistito, giuro, attraversando il ponte di Porta Firenze, già di Porta San Giacomo e oggi Ponte della Liberazione. Gli anni passano, i figli crescono e i nomi cambiano, anche quelli dei ponti che ne hanno vista scorrere di acqua. M’imbatto in una scolaresca vociante e in un’insegnante trafelata (non ti sporgere là, non urlare, stai attento che passano le macchine) che cerca di tenerne a bada la fila. L’alunno: “Maè ci fai passare per la ripa del fiume?”. La maestra: “Ripa? Che cos’è la ripa? Somaro, si chiama riva”. L’alunno: “Ma la riva non è quella del mare?”. La maestra: “In italiano si chiama riva anche quella del fiume, ricordatelo!”. Ricordiamocelo anche noi, mi raccomando. Soprattutto dimentichiamoci che Boccaccio scrive “né [il lago] da altra ripa era chiuso che dal suolo del prato” e Leopardi, non un Carneade qualsiasi: “il pastorel … arguto carme Sonar d’agresti pani udì lungo le ripe” e Dante – che non ci risulta facesse sega a scuola – per descrivere un luogo dirupato dell’Inferno (XI Canto) scrive: “Un’alta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio”. Senza discostarci troppo dal Topino, nei Fioretti di San Francesco si legge: “…e fu rapito e menato in ispirito su uno monte altissimo, al quale era una ripa profondissima”. Saranno pure malpagati questi insegnanti – e non è giusto che lo siano – ma spesso sono anche male informati.
GIOVANNI PICUTI