Laurearsi in carcere a Spoleto: lo studio alimenta la speranza per un reinserimento effettivo.
In sette anni di volontariato presso il carcere di Spoleto ho seguito un certo numero di detenuti negli studi universitari, alcuni dei quali fino alla laurea, anche magistrale. In quest’anno 2017 ben tre detenuti della casa di reclusione di Spoleto hanno conseguito la laurea riportando tutti la votazione di 110 con lode. Ad aprile Patrizio Trovato ha ottenuto la laurea in lettere con una tesi su Verga. A luglio Luigi Della Volpe si è laureato in scienza della comunicazione con una tesi su Gramsci, e infine il 15 novembre ha conquistato l’ambito traguardo della laurea, sempre in scienza della comunicazione, Tommaso Amato con una tesi di antropologia culturale su “L’importanza del cibo in carcere”. I tre neolaureati appartengono tutti al circuito di alta sicurezza e ora, dopo il brillante risultato ottenuto, si accingono a iscriversi chi al corso di laurea magistrale e chi a un nuovo corso di laurea. In tutti questi anni mi è apparsa chiara l’importanza che assume nel processo di rieducazione lo studio universitario per una persona detenuta. Non si tratta soltanto di un riscatto sociale che pure è presente, né di un modo come un altro per passare il tempo; lo studio universitario rappresenta soprattutto una sfida con se stessi, una sfida che mette in discussione l’io del passato, quell’io che a malapena era riuscito a prendere la licenza media. Studiare in carcere richiede una grande forza di volontà, sia per l’ambiente che non favorisce, sia perché si tratta di persone adulte che prima della detenzione avevano un’alfabetizzazione minima. Il percorso scolastico nelle scuole superiori, presenti a Spoleto, costituisce per i detenuti un’esperienza assistita dalla quotidiana presenza degli insegnanti che agevolano, smussano, intervengono laddove è necessario e con i quali il dialogo è costante. Lo studio universitario invece è individuale, solitario, e raramente può contare sull’intervento di un esperto. L’interazione con i professori universitari avviene esclusivamente in sede di esame. L’impossibilità di una comunicazione diretta tra i detenuti e il mondo universitario, e la necessità di ricorrere sempre a intermediari, impedisce al detenuto di rendersi fino in fondo protagonista dell’esperienza culturale che lo studio universitario rappresenta. Solo in sporadici casi la generosità di alcuni professori universitari consente ai detenuti di confrontarsi in maniera diretta e viva con le tematiche oggetto di studio; purtroppo quasi sempre l’esperienza è confinata allo studio del testo cartaceo. Mentre la scuola di primo e secondo grado entra in carcere e ne vive la realtà ogni giorno con tutte le sue implicazioni e limiti, l’università, laddove non sia stato costituito un polo universitario, risulta la grande assente dal percorso di rieducazione dei detenuti. Tuttavia il carcere di Spoleto, nonostante le difficoltà obiettive dovute anche a esigenze di sicurezza, e pur non essendo polo universitario, in quest’ultimo decennio ha visto laurearsi un discreto numero di detenuti, e quasi tutti a pieni voti. È un buon motivo per continuare a lavorare in questa direzione anche per una volontaria come me. Nell’anno accademico in corso l’università di Perugia, per agevolare i detenuti che desiderano iscriversi, ha previsto la completa esenzione dalle tasse universitarie. Un grande risultato, a cui hanno contribuito molti soggetti, che permette a persone per lo più prive di reddito l’opportunità di relazionarsi con la società esterna su un piano diverso da quello per il quale sono finite in carcere. In questo anno nuovi detenuti, neodiplomati, hanno scelto di iscriversi per la prima volta all’università di Perugia. Non sarà un percorso facile, ma c’è da augurarsi che in un futuro prossimo si aprano finalmente quei canali di comunicazione che consentano loro di seguire le lezioni in diretta e di interloquire in tempo reale con i docenti attraverso gli strumenti informatici. L’art. 27 della Costituzione prevede la pena come cammino di rieducazione, o meglio di riconciliazione tra chi ha sbagliato e la società; lo studio universitario è sicuramente uno strumento che consente alla persona detenuta di riflettere sul passato, di acquisire strumenti critici e di comprendere l’importanza della cultura, della conoscenza come valore irrinunciabile; la sostituzione di paradigmi delinquenziali con altri virtuosi, che con ogni probabilità non offriranno sbocchi professionali – ed è proprio questo il bello: l’assoluta gratuità dello studio – ma che insegneranno loro come tra persone ci si possa rapportare in maniera positiva e non a suon di mitraglia. Papa Francesco, che non perde occasione per incontrare i carcerati durante i suoi viaggi in Italia e all’estero, nel gennaio di quest’anno visitando il penitenziario di Padova ha chiesto ai detenuti di tenere accesa la luce della speranza. È urgente, ha aggiunto, una conversione culturale dove “non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola “fine” sulla vita… e non ci si accontenti di una giustizia solo retributiva… l’ergastolo non sia la soluzione dei problemi ma un problema da risolvere”. Da volontaria in carcere mi piace pensare che anche lo studio universitario sia uno dei modi offerti alle persone recluse per alimentare la speranza della riconciliazione affinché il reinserimento diventi una realtà effettiva, discendente dalla consapevolezza dei propri errori e dalla volontà di collaborare a una società più giusta e umana, con uno sguardo di compassione e di accoglienza da parte di chi sta “fuori”.
Rita Cerioni
Volontaria art. 17 ord. penit. – carcere di Spoleto
Bravissima…ogni tua parola x me ha un significato di alta professionalità che dovremmo condividere.