Non è andato bene niente
Barba lunga, corta, accennata; barba rada, mutton chop e garibaldi. Barba ispida, folta o bianca: speranze svanite, eccesso di impressione e precisione nel lavoro. Ottanta, sette e quarantadue su Napoli. Ma che tagliarsi la barba eviti il contagio proprio no. La facilità con cui si fondono informazioni reali (in questo caso il corretto uso delle mascherine) e la loro ricezione nella betoniera informativa ai tempi del Covid, lascia almeno perplessi. Mai quanto i gargarismi, che personalmente mi lasciano invece fortemente imbarazzato.
Ero restato a quelli con aceto e sale ai tempi del caro mal di gola, in un’altra vita: ora leggo che fare gargarismi con la candeggina protegge dall’infezione dei Coronavirus. Con la candeggina. Ipoclorito di sodio danzante a un niente dall’istmo delle fauci, a ciò che l’uom più oltre non si metta. E anche steroidi, oli essenziali e acqua salata: nel naso del medico della peste metterei anche un pò d’aglio, una punta di rapastrella, un battutino di lardo col rosmarino. Hai visto mai. Scopro che dovremmo lavarci i capelli ad ogni rientro in casa (ma se uno a casa ci sta, può fare lo shampoo ogni due giorni?) e ficcare a sessanta in lavatrice soprabiti, maglioni e magliette anche se sceso per la nettezza e passare le scarpe a un terminator che le risuoli al raggio laser; che sul pane o fra l’indivia si muovono le truppe aviotrasportate del virus, che se bevo e bevo e bevo (acqua) il mostriciattolo affoga e che se piglio l’antivirale, mangio kiwi barbabietole e mele il Covid è stritolato dal profluvio di vitamine, che chi ha fatto il vaccino contro la tbc non s’ammala e chissenefrega se la tbc è dovuta ad un batterio e questo signore qui, invece, è un virus, che se fo una lampada il Covid ci resta secco, mica s’abbronza, che il Sars-CoV-2 vola per aria fino a cinque metri il che, con un nome così, sarebbe proprio un’ignominia, tanto che io me lo figuravo come il Millennium Falcon, me lo figuravo, che manco Dart Fener e la Morte Nera.
Di fronte a questo delirio, che solo per stargli dietro si potrebbe ragionare alla don Abbondio (che non è una bella cosa, per chi abbia il tempo e la voglia di andare a raccattare il riferimento preciso e non gli piaccia andare per ambage, come direbbe Dante), di fronte a questa infezione della ragione, dicevo, non mi viene in mente altro che la severa e amara constatazione del Manzoni di fronte alle capriole mentali al tempo della pestilenza, quando si prendevano lucciole per lanterne: “Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sé”. Può cambiare il tempo, non l’uomo. Una proposta tecnologica più avanzata può distanziarlo da chi ha abitato anni prima il suo stesso metro quadrato, ma il senno ha progressioni diverse, e non è neppure detto che siano sempre in avanti.
E allora basta con tutto, ma proprio con tutto. Con la danza macabra dell’altoparlante mono-tono sulla macchinina, con le grida di anchorman, show woman e amebe canore che stanno a casa peripateggiando sui metri quadrati dei cristiani normali, con i moduli che durano l’espace d’un matin, i lenzuolini andratuttobene perché non è andato bene niente, ma proprio niente; basta con la sanità migliore del mondo, che è migliore ora e un mese fa era solo sforbiciata, tangentata, con suoccole e blatte, bisce e formiche e selfiementi di giuratori d’Ippocrita in sala operatoria, pollici retti, vittorie churchilliane, cuoricini e qualche bipede lestofante ai piani alti.
Tutto questo non c’entra con le bufale di cui sopra, si dirà. C’entra a un livello diverso, che Manzoni chiamerebbe livello di trufferie di parole, con le quali è stato ammorbato il senno. Poi per forza diventano necessari gli eroi (essendo mancati gli uomini), ma l’unica cosa che mi viene in mente è un pensiero di Brecht: “Sventurata è la terra che ha bisogno di eroi”. Sventuratissima. Tra le bufale sul Coronavirus è girata anche quella sulla correlazione fra Covid e tecnologie wireless. Quando tutto sarà finito, varrà la pena accertarsi da quale punto di vista questa non fosse una trufferia di parole.
Prof. GUGLIELMO TINI