Via Franco Ciri
Sole. Non ho mai visto tanto sole come in questo pomeriggio di un fine settimana di febbraio. Mi sporgo dal ponte di San Giacomo (di Porta Firenze? della Liberazione?) il sole che cala dietro le colline di Bevagna non è nell’aria ma nelle innumerevoli cose che la luce colpisce e riverbera. La luce del sole è come una carezza, ha bisogno di posarsi per essere tale. Lo fa sulle pietre lucidate del Carburo, sul campanile appuntito della chiesa, sulle mura delle Puelle, sulla torre dei Cinque Cantoni. Si posa senza risparmio, spargendo barbagli sopra ogni sasso che bianco affiora, su ogni lembo di terra o nodo che si formi nelle acque indolenti del Topino. Lo fa, di tanto in tanto, nella schiuma che sprizza ad ogni tentativo di decollo di una papera o immergersi di pantegana. Osservo la mia casa di via Franco Ciri e riemergono i ricordi. È la luce a rendere la bellezza della città, anche quando questa si mostra nei suoi rigagnoli di fogna, nei canali vischiosi di spurgo, negli avanzi putridi dell’ultima piena, nei ciuffi malati delle erbe infestanti, nella foresta d’ortiche, nei cumuli d’immondizia buttati sulle ripe, nelle casseruole sfondate, nelle pietre dirute del muretto orribilmente sfregiato che da ragazzi percorrevamo in bicicletta a rischio di cadere di sotto, a cavalcioni del quale accalappiavamo lucertole, una volta segnato dalle vie madreperlacee delle lumache e oggi da crepe infinite.
GIOVANNI PICUTI