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Parlare all’eternità

Non ricordo più in quale anno, ma prima che diventassimo amici tremavo all’idea che lui – immancabile lettore dei miei articoli benevolmente ospitati da un giornale locale – mi mettesse con garbo sotto agli occhi un mio pezzo segnato con un lapis rosso e blu a tutti gli anglismi, a tutti i punti e virgola spesi a sproposito, ma soprattutto alle inesattezze riferite alla materia di cui è maestro: la storia. Perché se c’è una cosa che la storia non tollera sono le inesattezze, come ci ammoniva continuamente la Falconi ai tempi del liceo. Con il tempo ho imparato a non temerlo, piuttosto a interpellarlo, magari passeggiandoci insieme per i vicoli della città, esercizio che comporta un valore formativo ignorato dai più. Mi compiaccio di ascoltarlo parlare di raponzoli con i fruttivendoli di piazza dell’Erba, di coppa di testa con il suo pizzicagnolo di fiducia, di Giulio Giuliani con l’impiegato della biblioteca. Dal suo schivo colloquiare con le persone più umili ho tratto una lezione: certi pretesi intellettuali, che con eccessiva sicumera pubblicano sontuose prefazioni su libriccini di marginale tiratura o sgomitano per presiedere le accademie cittadine, non s’accorgono che parlando all’eternità, quasi sempre finiscono di parlare al vuoto. Ogni tempo ha gli uomini che si merita.

GIOVANNI PICUTI

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