ok - Art Statue da vestire - Fig. 1

Statue “da vestire”

Potremmo definirli “manichini sacri”: sono dei manufatti tridimensionali, che rappresentano per lo più la Madonna o figure di santi, solitamente costituiti da uno scheletro di legno intorno a cui sono avvolti stracci, stoppa, cordami rivestiti di gesso, che viene poi dipinto. Effigi rientranti nel campo della devozione popolare, questi simulacri venivano generalmente portati in processione durante particolari festività, dopo la fase della formale vestizione con abiti lussuosi, da parte di persone ufficialmente preposte al solenne compito. In Italia hanno conosciuto la loro massima diffusione tra il XVI e il XVIII secolo.

Un esemplare molto interessante di queste statue “da vestire” è conservato nei depositi del Museo di Palazzo Trinci [fig. 1-2]: si tratta di una scultura raffigurante una figura femminile che mostra affinità con le opere attribuite da Cristina Galassi a Romano Alberti da Sansepolcro, detto il Nero. A partire dalla statua raffigurante San Rocco recante la data 1528 e oggi conservata nella chiesa di Santa Croce di Umbertide, la studiosa attribuisce all’artista biturgense un nutrito corpus di manufatti (in cui confluiscono le sculture assegnate nel 1997 da Enrica Neri Lusanna al cosiddetto Maestro di Magione) formato da statue seminude, destinate ad essere coperte con abiti in stoffa – raffiguranti per lo più San Rocco, la Madonna, o Gesù Bambino – accomunate dal punto di vista esecutivo, formale e stilistico. Laura Teza ha però suggerito in modo convincente di accostare queste opere alla documentata attività di intagliatore (e anche di restauratore di statue) svolta da Bernardino di Mariotto insieme al suo alumnus Marino Samminucci. In effetti, davvero notevoli risultano le affinità fra questa produzione scultorea e i dipinti eseguiti dall’artista perugino, come sottolinea Corrado Fratini e come ribadisce Elvio Lunghi, che attribuisce alla “bottega di Bernardino di Mariotto” anche la statua del San Rocco della chiesa di Santa Maria Assunta a Bettona.

Alcune di queste statue sono in realtà assimilabili a dei “burattini”: con un procedimento più rapido ed economico, risultano delineati in modo dettagliato solo la testa, il collo e gli arti, mentre il corpo è appena sbozzato. È il caso della graziosa statuetta lignea raffigurante Sant’Antonio da Padova, proveniente forse dal monastero di Sant’Antonio delle Margaritole, fusosi nel 1801 con quello di Sant’Anna, dove oggi la statua è conservata [fig. 3]. Il corpo si compone di una semplicissima anima in legno grezzo; il logoramento del saio lascia scoperte le “gambe” della figura, costituite da due asticelle che dovevano essere fissate tramite perni metallici ad un piedistallo. La testa della statua è stata ricavata da un unico pezzo di legno scolpito, su cui è applicata la capigliatura che è eseguita invece in stucco modellato; dall’abito religioso dovevano affiorare anche le mani, andate perdute. Il saio, infine, è realizzato in tela gessata. Per dimensioni e caratteristiche tecniche, il piccolo Sant’Antonio del monastero di Sant’Anna si presenta come una sorta di “precursore” delle cinquecentesche statue “da vestire”, di cui il manichino del Museo di Palazzo Trinci rappresenta un raffinato esempio.

Come si è detto, la statua femminile conservata nel Museo di Palazzo Trinci presenta numerosi elementi in comune con le opere ricondotte alla bottega di Nero Alberti o, più probabilmente, a quella di Bernardino di Mariotto: si vedano a riguardo alcune caratteristiche del volto, oppure l’attenzione alla resa della capigliatura – la cui policromia è realizzata con una doratura a foglia – raccolta in una treccia che gira intorno alla testa. L’opera è databile intorno alla metà del Cinquecento; il vestito, purtroppo estremamente frammentario, è invece di foggia settecentesca, aspetto questo che testimonia il perdurare dell’utilizzo del “manichino” in pratiche devozionali almeno fino al XVIII secolo.

La statua di Foligno però presenta anche alcune specificità, come la presenza dello snodo all’altezza delle ginocchia, che conferisce una maggiore complessità e una particolare ricercatezza al manufatto. Quest’ultimo dettaglio mi spinge a ipotizzare che la statua fosse eseguita per essere posizionata non soltanto in piedi, ma anche in ginocchio, in modo cioè da raffigurare l’iconografia natalizia di Maria in adorazione del Bambino. Un simile schema era molto diffuso nel Folignate, si veda, per esempio, il gruppo plastico in terracotta che sta all’origine della costruzione del santuario della Madonna delle Grazie a Rasiglia.

EMANUELA CECCONELLI

0 shares
Previous Post

Il paladino del ventre

Next Post

Variante Sud, l’intruppo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Skip to content