Ragazzacci
“Bruciato uno stendardo se ne fa un altro”. Me lo sono sentito dire in una taverna della Quintana da un adulto, forse il padre/precettore (putativo o meno) dell’autore dell’insano gesto. O semplicemente un istigatore spirituale per il solo fatto di esistere ed aggirarsi per il centro in bermuda, ciabatte e canottiera. Un personaggetto, insomma, partorito dalla mercificazione totalitaria, uno di quelli la cui apparizione serale confligge con ogni, anche umbratile, superstite idea di felicità umana. “Bruciato uno stendardo se ne fa un altro” e ha aggiunto: “Con tutti i problemi seri che abbiamo in città stiamo a dare importanza a questi ragazzacci”. Se abbiamo a cuore i nostri giovani dovremmo istituire un Servizio Civile per separarli da questo tipo di educatori. Il dato statistico segnala il livello imbarazzante, sempre più pervasivo, di disoccupazione mentale alimentata dai social e dal lavaggio midollare della mente, la rinuncia da ogni autentico affratellamento umano. Non è un concetto complicato. La Quintana, che ci piaccia o no, che ci disturbi o meno con i suoi tamburini, che ci indispettisca con i suoi filomè e con le bottiglie di birra abbandonate per strada (vale anche per le Gaite e per la Festa della Cipolla) riavvicina i ragazzi, li mette a confronto, li rende perfino operosi, meno virtuali. Può darsi che chi ne abbia bruciato un simbolo non sapesse cosa stesse facendo, ma quel che brucia veramente è la mancanza di senso civico. Brucia la logica a giudicare il triste ruolo al quale la stolta opinione pubblica ha relegato i suoi esecutori definendoli “ragazzacci” senza comprenderne la vera sventura esistenziale.
GIOVANNI PICUTI