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Solo i pazzi – o quelli che credono di avere sempre ragione – mantengono il punto. Non appartenendo a nessuna delle due categorie ho rivisto, nei limiti concessimi dalla mia fierezza, il giudizio espresso sulla ridente Rasiglia, abbandonata dalle fuggiasche istituzioni all’iniziativa dei suoi solerti abitanti. Ho fatto passare un po’ di tempo perché si raffreddasse il risentimento nei confronti di un mio cammeo apparso su questa luciferina rubrica. La settimana scorsa ero a Borghetto, in Comune di Valeggio. Percorrevo una pista ciclabile che, attraverso gli argini del Mincio, collega Peschiera del Garda con Mantova. Nel godere dello scenario del parco acquatico (dai colori, dagli odori e dai sapori che assalgono con una intensità impensabile chi proviene da ambienti urbani) mi è tornato in mente lo scambio di opinioni avuto con un mio longilineo amico, la cui famiglia ha fatto la storia di Rasiglia. Insieme alla sagace consorte mi aveva giustamente bacchettato per essermi espresso in termini troppo categorici nel parlare di perdita del genius loci. Ad entrambi, che sono stati tra i principali fautori della rinascita di Rasiglia, devo un pranzo – magari a Vionica da Paola – preceduto da un mattutino sopralluogo per le vie dell’eminente borgo alla ricerca della sua vera identità alla quale, mi si conceda, attenta un certo turismo desacralizzante e poco rimunerativo. Forse davanti ad una frittata con gli asparagi scoppierà la pace se ci riuscirà di ragionare sugli accorgimenti utili al disvelamento di quella soppiantata divinità di cui Rasiglia non può fare a meno.

GIOVANNI PICUTI

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