Pianoforte amore mio. Marco Scolastra e il “senso” della musica
Marco Scolastra, pianista di fama internazionale e direttore artistico degli Amici della Musica di Foligno, mi accoglie in un luogo splendido e fuori dal tempo: Villa Roncalli. Da dove me ne andrò con in borsa un suo magnifico disco e la felice consapevolezza di aver conosciuto una persona speciale. Scolastra, conosciuto in Italia e in Europa per il suo grande talento, è uomo di grande eleganza, profondità intellettuale e soprattutto umiltà.
Partiamo dalle origini: quando ha iniziato a suonare?
Ho cominciato perché mio padre suonava la fisarmonica e io a sette anni ripetevo su una piccola pianola che avevamo in casa le melodie che suonava. Poi i miei si sono trasferiti a Spello per l’attività di ristorazione al ristorante La Bastiglia. Lì ho conosciuto una persona meravigliosa, la mia prima maestra: Liliana Gubbini. Mi ha dato ciò che ho ancora e che mi permette di andare avanti: l’entusiasmo. Avevo nove anni.
Una vera e propria vocazione.
Si. Quando avevo cinque anni c’era un’enciclopedia che si chiamava I Quindici: mia madre mi diceva che ero sempre chino su uno dei volumi, quello dedicato alla musica. Leggevo e rileggevo la pagina di Beethoven. A distanza di anni sono andato a rivederla ed era vero: la pagina è logora!
Siamo in un luogo bellissimo, di cultura e gusto oltre che di incontro. Una carriera artistica, la sua, nata dalla bellezza?
Dalla verità. Perché il bello è verità. I miei genitori erano persone normali. Mio padre rappresentante della Perugina, mia madre diplomata all’Istituto alberghiero. Una donna sensibilissima. Nel ‘79 mio padre ha aperto il ristorante La Bastiglia. Amava il bello, come anche mia madre. Comprava mobili antichi, apprezzava la moda, aveva più di cento paia di scarpe. Forse una reazione rispetto ai tempi della guerra, quando non possedeva queste cose ma le ammirava. Una mia insegnante di pianoforte, Anna Rosa Taddei diceva: “Marco, guarda: va alla ricerca del bello. C’è, bisogna scoprirlo!”. Mio padre ha fatto questo, nella sua modestia e umiltà di origini.
Dunque era inevitabile che lei e sua sorella diventaste artisti, ognuno nel proprio mondo…
No, io non sono un artista!
Non vuole definirsi artista? Perché?
L’artista per me è colui che crea. Io non sono un compositore, non ho alcun talento per la composizione. Ho un pochino di talento, credo, come interprete: come colui che fa vivere la partitura. L’interprete di musica classica è colui che legge con sensibilità e con intuito la pagina scritta. Altrimenti sulla carta la musica è morta.
E dandole vita non compie forse un atto creativo?
Forse come diceva un grande compositore, Ferruccio Busoni, “ogni interpretazione è una ri-creazione”. Però mi imbarazzo molto quando mi definiscono artista! Allora non ci sarebbe differenza tra me e Chopin o tra me e Beethoven! Loro sono i grandi, immensi, noi siamo figure importanti, perché senza di noi non ci sarebbe la musica però… questo termine mi mette a disagio.
Prossimi appuntamenti: l’8 marzo all’Auditorium San Domenico di Foligno con “La musica dell’anima” insieme a Pamela Villoresi. Il 6 aprile al teatro san Carlo di Napoli con il concerto “I peccati di Rossini”.
Possiede la modestia propria dei grandi. Mi diceva anche una certa timidezza, ma non sul palco. Che significa?
Mi piace tantissimo andare sul palco nello spazio che divide il camerino dal palco mi carico come un leone e sono fiero e contento di portare la musica. Accumulo molta energia, mi sento a mio agio come se come fossi nella mia casa. Fuori no, ho una certa timidezza. Se vado ai concerti mi piace stare nelle ultime file. A volte mi vengono riservati posti particolari e questo non mi piace, mi imbarazza.
Quindi conferma la teoria di tanti secondo cui il palco è una terapia.
Ne sono convintissimo. Ogni volta è terapeutico fare musica. Terapeutico perché fa bene, libera, siamo liberi, siamo nudi. Stare nudi fa bene. Vanno via le piccole e grandi maschere che dobbiamo indossare nella vita. È un atto di grande libertà e di grande erotismo perché è vita, è amore. Come tutti gli atti di amore non è un rapporto di supremazia perché se si predomina l’esecuzione non ha “funzionato”.
Così risponde, in parte, anche a una grande domanda: cos’è per lei la musica?
Innanzitutto un grande privilegio. Destino? Non so. Ognuno di noi nasce con una predisposizione. Talento è una parola grossa, non penso di avere un grandissimo talento. Il mio Maestro, Aldo Ciccolini, diceva: “Nella musica il 10% è talento, il 30% è cocciutaggine, il 30% è disciplina e il 30% è lavoro”. Dunque 90% di volontà e 10% di talento. Questa volontà è per me portare quel 10% di talento al massimo stato e fare in modo che questa musica arrivi al pubblico. La mia volontà è comunicare.
Dunque comunicare è lo scopo finale?
Certamente. Questo dipende secondo me dall’intuizione, da quanto si è musicali. Se ho davanti a me una pagina di Mozart capisco – e sento – il senso della musica. Questa è l’intuizione. Se si tratta di ri-creare credo di possedere questa abilità. Quando una cantante dell’epoca eseguì un’aria del Barbiere di Siviglia cambiando tutte le variazioni Rossini le chiese: “Cosa sta cantando?” e lei: “Maestro! Sto cantando l’aria del suo Barbiere!”. “Ma no! – rispose – è tutta diversa!” e lei: “Ma sa, tra noi artisti…” e Rossini precisò: “No: lei è un’esecutrice, io sono un artista!”.
Spietato. Da Rossini ai suoi Maestri. Quali ricorda?
Le persone a cui devo tutto nella mia vita sono i miei genitori e i miei maestri, perché se non sai non sei. Un grande intellettuale del ‘900, Axel Munthe, che ha creato la meravigliosa Villa San Michele a Capri diceva: “Volere, osare, sapere, tacere”, un motto che faccio sempre mio. Il primo lume, come detto, fu Liliana Gubbini. La persona con cui sono passato dal diletto alle regole è stata Annarosa Taddei. Un’immensa pianista, grande didatta, donna di cultura, stile, eleganza assoluti. La prima volta andai da lei che avevo 16 anni e mi massacrò.
Perché?
Perché suonavo male. Per impressionarla portai un brano di Listz. Finii e lei disse: “Chi crede di stupire? Lei suona come un ubriaco. O si mette a studiare o se ne va a casa”. Mi ha insegnato la grammatica, il linguaggio musicale perché bisogna essere musicisti oltre che musicali. Era rigorosissima, veniva dalla scuola di Alfredo Casella. Una persona stupenda, una luce: a 90 anni suonava ancora meravigliosamente. Ricordo poi il mio maestro di conservatorio, Franco Fabiani: mi ha insegnato un metodo di studio molto valido. A lui mi affidò la signora Taddei che andava in pensione. L’ultimo maestro è stato Aldo Ciccolini, pianista italo-francese con cui ho fatto il perfezionamento. Aveva una grandissima spiritualità da cui ogni volta carpivo qualcosa; volevo capire come faceva a leggere la musica in maniera così speciale. Alla fine ho scoperto che non ci sono segreti: bisogna essere sensibili, predisposti e studiare tantissimo.
Quali suoi concerti ricorda in particolare?
Il primo è quello con l’orchestra sinfonica del Conservatorio di Perugia come miglior diplomato alla Sala dei Notari. Era il marzo del 1993. Suonai il concerto di Mozart K488: un’esperienza meravigliosa fra paura e gioia. Il suono del clarinetto era di Ciro Scarponi, il più grande clarinettista italiano del secondo Novecento; la comunicazione visiva e spirituale con lui era meravigliosa. Poi ricordo il concerto per pianoforte e orchestra di Alfred Schnittke nel marzo 2017 alle Serate Musicali di Milano. Un momento molto importante per me perché ho suonato sentendomi completamente libero, in un luogo assai prestigioso. Nel 2018 ho suonato in un altro tempio della musica, il Musikverein di Vienna però il concerto di Schnittke è stato per me veramente speciale. Forse grazie anche alla direzione di Yuri Bashmet e ai Solisti di Mosca. Terzo concerto quello in cui riassumo tutti quelli fatti – più di duecento in 18 anni! – con Elio Pandolfi: grande attore, che mi ha dato tantissimo insegnandomi ad improvvisare sul palcoscenico. Parlo naturalmente di micro improvvisazione, ovvero di libertà sul palcoscenico: si suona veramente bene quando si è liberi e ci si scorda di se stessi.
Nella sua ricerca continua cosa crede che sia la perfezione?
Quello di perfezione, di eccellenza classica non è un concetto assoluto; l’importante – come ricorda il grande pianista russo Neuhaus – è lo “specifico artistico” che vuol dire che in ogni tempo sono le emozioni che innervano l’opera d’arte a renderla tale. È l’anima dell’autore nell’atto creativo. Ma nella musica c’è poi un passaggio obbligato: quello che ci chiede di esserne interpreti. La musica vive nella pagina scritta, ma lì dorme. Sta all’interprete risvegliarla nel rispetto dell’autore. E allora quando un’esecuzione può dirsi perfetta? Forse mai. Pochissimi interpreti si sono avvicinati a questo ideale; me ne vengono in mente due nel ventesimo secolo: Maria Callas e Arturo Benedetti Michelangeli. La loro perfezione era sì, esecutiva, al massimo grado, ma soprattutto era perfezione nella realizzazione dello specifico artistico. Per questo un interprete che non sbaglia nessuna nota non è perfetto: è solo corretto. Bisogna fare molto di più: conoscere, sentire, amare l’opera d’arte, vibrare in essa e con essa.
FEDERICA MENGHINELLA