A lezione da Ariodante Picuti
Correva l’anno… non lo ricordo più tanto bene. Posso solo dire che si trattava dei primi anni sessanta del secolo scorso.
C’era udienza civile avanti al Tribunale di Perugia e la stanza del giudice istruttore era così piccola che faceva pensare più alla cella di un minorita che ad un’aula di giustizia. Sulla piccola scrivania si ammonticchiavano i fascicoli processuali e davanti ad essa premeva una folla di avvocati, periti, testimoni e sbigottite parti litiganti. Il magistrato, forse anche infastidito da quella calca, ebbe un vivace battibecco con un avvocato che si era fatto largo tra
i postulanti. Io, che ero un procuratore alle prime armi perché da poco avevo superato l’esame, non compresi le ragioni del contendere e non afferrai le parole dell’avvocato. Però mi turbò molto il tono alterato e arrogante con cui il giudice gli si rivolgeva.“Mi dicono che Lei, caro avvocato, è troppo abituato a fare il comodo suo nelle preture!”. La frase era all’evidenza sprezzante perché stava a sottolineare che quel professionista era aduso a spadroneggiare davanti alle magistrature… inferiori. Era certamente sottinteso un “qui siamo in Tribunale ed è tutta un’altra storia!”. Se le parole fossero state rivolte a me, sarei rimasto annichilito.
Quell’avvocato invece, per nulla turbato dall’osservazione, prontamente replicava: “Signor giudice, questo lei dovrebbe averlo ben costatato di persona dato che in pretura c’è stato per tanti anni!”. La risposta era velenosissima perché a quel tempo (l’ho capito molto dopo) il passaggio alle magistrature superiori non era automatico ma avveniva previa valutazione del lavoro svolto. Velenosissima quanto si vuole ma certamente acuta e sapiente perché non travalicava nell’oltraggio. Era come dire ad un ufficiale superiore di essere stato maresciallo per tanti anni! Ne nacque un vivace battibecco di cui non posso e non voglio riferire gli esatti termini. Ebbi però la certezza che quel rapporto burrascoso non era nato in quel momento ma risaliva a molto tempo addietro. Ricordo bene che l’avvocato davanti ad una folla ammutolita afferrò il codice di procedura civile che era posato sulla scrivania, lo sfogliò con calma e arrivato ad un certo punto (seppi poi che si trattava dell’articolo 51) dichiarava: “A questo punto il difensore ex articolo tale paragrafo tal altro dichiara che inoltrerà istanza di ricusazione del giudice a motivo di grave inimicizia”: Il magistrato si fece pallido in viso e cavato un pacco di biscotti dal cassetto dello scrittoio si mise a sgranocchiarne nervosamente il contenuto (seppi poi che soffriva di ulcera gastrica). Io che ero un pivello sprovveduto guadagnai coraggiosamente l’uscita molto turbato da quell’incidente per me nuovo e inaspettato. Tutta la stanza si svuotò rapidamente. Non so come la cosa sia finita. Non ricordo il nome del giudice che vedevo per la prima volta, ma ricordo bene quello dell’avvocato: era Ariodante Picuti. Così quando Giovanni mi ha chiesto di scrivere qualche cosa su suo padre non ho pensato alle solite espressioni celebrative che sanno tanto di epitaffio. Ho preferito rievocare un episodio che è stato per me una lezione. Per conseguire l’abilitazione all’esercizio della professione avevo da poco superato due esami scritti e gli orali su varie materie: diritto civile, penale, amministrativo, le procedure e via discorrendo. Ma la lezione più importante me la impartì Ariodante dimostrandomi con l’esempio che in una società veramente civile la toga va onorata e rispettata sempre. Non solo quando decide (che è funzione altissima e tremenda) ma anche quando accusa e quando difende.
LUCIANO CICIONI