Lo spiedo e il pillotto
Il pranzo di Natale è l’ultimo avamposto del patriottismo. Detto così sembra che il corollario contrasti con le aspettative universali che abbiamo riposto nei nostri figli. Eppure si può essere globali rimanendo locali, perlomeno per le feste comandate. Quella di oggi – giocoforza – è la generazione più cosmopolita della storia del Paese. Mio figlio, per esempio, che vive tra Milano e Firenze (in pratica su un Frecciarossa) quest’estate in Cina s’è nutrito di cavallette e tra poco sarà a Gerusalemme attento a non mescolare carne e latticini, come da tradizione rabbinica. Eppure non ha ancora ripudiato la nostra civiltà alimentare, a giudicare dal messaggio secco che ha inviato al cellulare della madre in previsione del pranzo di Natale: “Fanne tanti, di cappelletti”. La rivelazione lascia sperare. Il sangue del mio sangue non ha ancora ceduto al perbenismo delle gastronomie mondialiste, non s’è piegato all’offensiva demografica ed economica. Altrimenti me la sarei presa a morte. Gli avrei detto: “Perché il coleottero fritto sì e la galantina di nonna no?”. Mi sono temerariamente spinto a domandargli come la vedesse in argomento e lui: “Non ho nulla contro l’entomofagia, ma vuoi mette’ il bollito misto coi tagliolini?”. Poi se n’è andato a cena da un amico che maneggia lo spiedo e il pillotto, senza i quali l’Umbria sarebbe ridotta ad un’espressione geografica.
GIOVANNI PICUTI