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Fornelli reazionari

Tonino Formica, discendente di Angelo, lo è anche dei vari gigiotti di Gualdo Tadino, cochetti di Trevi, amatilli di Foligno e nine di Bevagna. Sì, perché i ristoranti tradizionali del nostro territorio sono scomparsi lasciando spazio alle cialtronerie degli chef sperimentali. Niente più cresce sotto la cenere, pollastri ruspanti, maiali bradi, faraone croccanti e succulenti capponi; niente farine locali, pani generosi e “melette rosce” per farcire le rocciate. Tutto volge fatalmente verso l’empirico trascendentale, descritto in modo impeccabile da Anthony Bourdain nel suo Kitchen Confidential. Manca, appunto, la confidenza tra il prodotto e chi è chiamato a trasformarlo, ma anche tra il prodotto trasformato e il destinatario finale, che ne esce disorientato. Che fine hanno fatto gli eredi di quei ghiottoni erranti di Carlino Suardi, Enzo Rocchigiani, Angelo Scolastra e Bruno Terrin, detto Lu Gobbo? Anche le nonne e le mamme passano e i palati si guastano mangiando sushi e hamburger di dubbia razza chianina. Tonino di Ponte Santa Lucia fa eccezione. Lui è un inesauribile giacimento della tradizione, come lo ha definito il giornalista Carlo Cambi in occasione del banchetto apparecchiato al Guesia per l’Accademia della Cucina Italiana. Ma che dico banchetto? Una lectio magistralis di pentole, fornelli e stoviglie. Proprio a lui (che bardascio sgommava tra i tavoli della rustica osteria paterna, sulla cui insegna c’era scritto “Cibi Cotti”) in occasione dell’annuale Cena Ecumenica è stato assegnato il premio Giovanni Nuvoletti 2018. Non fosse altro perché sa ancora come accontentare gli stomacucci reazionari, ovviamente con l’aiuto della cuoca Santa Savini, che della cucina vera è capace di mostrare ancora l’originale sguardo, impietoso e struggente al tempo stesso.

GIOVANNI PICUTI

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