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L’appellativo inopportuno

Mi definisco democratico perché rispetto l’opinione del prossimo. Mi proclamo cristiano perché professo il perdono. Rimetto i debiti e prego affinché mi siano rimessi. Non è colpa mia se la Nemesi storica non perdona. Assisto con indifferenza al fuggi fuggi generale di molti comunisti, che non amano più definirsi – o sentirsi definire – tali. Abiurata dal nuovo che avanza – e non basta neppure a se stesso – l’espressione “comunista” va finalmente ad incasellarsi nella sua riveduta accezione (dispregiativa?) a fianco di “fascista” e “democristiano”. La Nemesi ‘stavolta investe i progressisti dell’ultima ora costretti a ripudiare l’inopportuno appellativo, dopo aver fronteggiato come hanno potuto le avversità del Fato, le picconate di D’Alema e il prevalere di determinazioni contrarie. Nell’uso politico della retorica, la definizione di “comunista” torna in testa come un boomerang, suscitando negli orfani fascisti e negli imboscati democristiani una sorta di vendicativa soddisfazione. La storia, o se preferite il Fato, ha compiuto la sua vendetta in nome di chi abbia patito certi sgarbi. Chiamatelo contrappasso, oppure giustizialismo, ma a chi tocca non s’ingrugni, come dicono a Foligno.

GIOVANNI PICUTI

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