Il referendum in Catalogna e l’autodeterminazione in una stanza
Dopo la Brexit un altro strappo nel cuore dell’Europa: il 1° ottobre scorso la Catalogna ha votato per l’indipendenza dalla Spagna in un referendum incostituzionale unilateralmente indetto dal Parlamento catalano il 6 settembre. La Catalogna è una delle 17 Comunità autonome in cui è suddivisa la Spagna, secondo l’ordinamento fortemente regionalista espresso dalla Costituzione del 1978. L’indipendentismo della Catalogna ha radici storiche e culturali antiche, ma che esso sfoci oggi nel tentativo di una parte (non maggioritaria) della popolazione catalana di realizzare l’indipendenza da uno Stato democratico, e quindi da una comunità civica e politica, a cui dovrebbe sentire di appartenere da tempo si spiega solo con la volontà di cedere a un sentimento identitario ideologico, alimentato dalla retorica di un torto subito in passato dai “cattivi conquistatori”.
Questo è un primo punto: il trionfo dell’indipendentismo etnocentrico, quando non è causato dal dominio di una potenza occupante o di un governo centrale oppressivo, è segno di una carenza diffusa nel sentimento di appartenenza alla nazione come comunità civica e politica (di “patriottismo costituzionale”, direbbe Habermas), e riflette la crisi del rapporto tra cittadini e Stato prima ancora che del rapporto tra comunità locali e Stato centrale.
Secondo punto. L’autodeterminazione è una parola spesso invocata dai fautori dell’indipendentismo per esprimere il diritto a una libera scelta popolare democratica. Ma la democrazia in una stanza, ricordava alcuni anni fa Gian Enrico Rusconi, è un controsenso. La democrazia si nutre di senso di responsabilità reciproca piuttosto che di perseguimento dell’interesse esclusivo del proprio gruppo; dell’impegno nel gestire insieme e a favore di tutti un destino comune che si ha caro. L’idea di una democrazia “per noi soli”, specie quando è portata avanti da una minoranza relativamente forte e ricca entro uno Stato, è di per sé un’idea di democrazia degenerata. Peraltro il diritto internazionale riconosce il diritto all’autodeterminazione solo per i popoli sottoposti a dominio coloniale, a occupazione straniera o a regime di segregazione razziale, non per minoranze nazionali all’interno degli Stati (specie se non vessate), tutelando piuttosto la stabilità di questi ultimi contro spinte disgregative.
Terzo punto. Una democrazia sorretta dalla nazione dei cittadini va costruita e promossa dai governi, attraverso la valorizzazione delle identità locali, l’attento ascolto delle pulsioni delle varie componenti del popolo, l’invito costante al dialogo e a processi condivisi. Il referendum catalano sembra anche il frutto di un insufficiente sforzo di ascolto e comprensione da parte delle autorità spagnole, come del resto ha dimostrato la risposta (solo) rigida e legalista del premier Rajoy.
Una bella lezione è venuta dalla gente “in bianco” pacificamente scesa in piazza sabato 7 ottobre con lo slogan PARLIAMO. La democrazia, infatti, è parlarsi.
AMINA MANEGGIA