La sanità al tempo della globalizzazione Soddisfatti del nuovo che avanza?
Da noi, modernizzazione ha significato anche smantellamento dei presidi sanitari che erano presenti in varie città della regione per concentrarli nei centri più grandi. Si è cominciato alcuni decenni fa e non è ancora finita. Nel nostro territorio si sono chiusi progressivamente gli ospedali di Trevi, Spello, Nocera Umbra, Montefalco. Ora forse sarà la volta di Spoleto, per il quale si parla di razionalizzazione, termine usato in passato per gli ospedali sopra menzionati e per i quali la parola significò chiusura. Il costo dell’operazione è stato ingente: da un lato macchinari, nuove sale operatorie, strumentari acquisiti nel tempo hanno finito per marcire negli ambienti dismessi; dall’altra parte per accogliere la maggiore utenza è stato necessario prima l’ampliamento poi la costruzione di nuovi ospedali maggiori, come nel caso di Foligno, etc. Dunque un impegno finanziario notevole che, come corollario, ha sollevato sospetti su degenerazioni e pratiche di corruzione. Nello stesso tempo il nuovo corso ha visto la soppressione dei consigli di amministrazione di un tempo, espressioni delle comunità locali, e la formazione di una nuova classe di tecnici di estrazione e controllo politico, chiamati a realizzare le linee programmatiche elaborate dall’assessorato regionale alla sanità di Perugia. Un compito difficile, oltre che da un punto di vista tecnico, da uno più squisitamente politico, perché tra l’altro si trattava di mediare con i sindaci e le comunità locali che facevano barricate dinanzi alla progressiva spoliazione dei loro presidi. Questi dirigenti, di solito gli stessi a ruotare nelle diverse realtà, hanno svolto egregiamente il loro compito, onorando l’alto stipendio da amministratori di aziende private che era stato elargito loro. Il nuovo assetto organizzativo ha dovuto superare anche non facili problemi patrimoniali, perché gli ospedali erano stati costruiti e gestiti con il contributo di privati, fondazioni, enti religiosi che, di fatto, ne erano i proprietari. C’è voluto del tempo ma la cosa alla fine è andata in porto e qualche struttura non è stata chiusa del tutto ma, come nel caso di Trevi, riconvertita in un servizio specifico. Di fatto, comunque, tutti i paesi si sono dovuti rassegnare a perdere il proprio ospedale, sacrificato sull’altare di una modernizzazione che non sempre è stata percepita come un vantaggio per i malati. Il processo di centralizzazione non ha interessato solo la sanità, ma ha coinvolto tutti gli aspetti del vivere sociale con una spoliazione progressiva delle comunità locali e l’urbanizzazione nei centri maggiori. L’Umbria dei millenni, contraddistinta dalla diffusione sul territorio di gruppi sociali, ognuno raccolto sotto un campanile e una torre civica, si va dissolvendo. Rimangono manifestazioni storico-folcloristiche a rivendicare un’appartenenza, un’identità. Hanno contribuito i terremoti endemici, la costruzione di strade di grande comunicazione con interi paesi tagliati fuori dal traffico di viaggiatori, spesso unica risorsa economica e ragione d’essere. La contemporaneità si caratterizza anche per questi processi che la cultura dominante ha imposto di considerare necessari e irreversibili. E dunque sono stati chiusi gli ospedali locali perché, si è detto, non più adeguati agli standard nazionali ed europei. La modernità impone regole di sicurezza, privacy, efficacia, efficienza, report di accreditamenti, che solo i più grandi ospedali garantiscono. Com’era strutturata la nostra rete sanitaria prima dei nuovi assetti? Avevamo tre tipi di ospedali: Zonali, Provinciali, Regionale. L’Ospedale Zonale serviva per curare le patologie più semplici, aveva i reparti fondamentali e lo staff medico era costituito da alcuni medici strutturati e dai medici di famiglia che svolgevano anche un po’ di lavoro ospedaliero, in particolare sui malati che lì ricoveravano. La struttura era in qualche modo una propaggine della città che l’ospitava, quasi sempre dentro le mura, faceva parte della vita della collettività. Per patologie più complesse i pazienti venivano trasferiti o andavano direttamente negli Ospedali Provinciali che avevano tutti i reparti meno quelli di ultima formazione, superspecialistici, come la Neurochirurgia o la Cardiochirurgia, che si trovavano nell’Ospedale Regionale annesso alla sede universitaria di Medicina. Lì c’era tutto quello che la scienza medica e l’organizzazione sanitaria potevano fornire. Chi gestiva tutto questo? Essenzialmente i medici, di vario grado e livello, che si confrontavano con consigli di amministrazione espressione della comunità locale. Una sorta di organo di controllo dell’attività e di traduzioni operative delle indicazioni che venivano dai responsabili medici. Non era poi un modello così inadeguato, espressione anch’esso di una società ancora racchiusa dentro le mura della propria città, con legami familistici forti, con identità di collettività formatesi nei secoli. Ma ora i piccoli centri si svuotano e muoiono lentamente. E nelle città tutto il benessere promesso assume contorni chimerici, e la gente non appare così felice e soddisfatta del nuovo. Credo che sia lo stesso per la Sanità.
MARCELLO PACI