Don Milani, il Papa e il Cardinale
Don Lorenzo Milani (1923-1967) è stato un sacerdote che ha lasciato un segno nella Chiesa e nella storia italiana. I suoi scritti più incisivi sono stati Esperienze pastorali (1959), L’obbedienza non è più una virtù (lettera aperta del 1965 ad un gruppo di cappellani militari toscani, che in un loro comunicato avevano definito l’obiezione di coscienza “estranea al Comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà”) e Lettera a una professoressa (scritta con i ragazzi di Barbiana nel 1966).
Per le sue posizioni Don Milani subì un triplice ostracismo. Dalla magistratura italiana, che per la lettera ai cappellani lo rinviò a giudizio per apologia di reato e, dopo un’assoluzione in primo grado, lo condannò in appello, quando era già morto. Dalla Curia fiorentina, che lo mandò a fare il priore nella piccola e isolata parrocchia di montagna di Barbiana. Dal Sant’Uffizio, che nel dicembre del 1959 dispose il ritiro di Esperienze pastorali dal commercio, ritenendone “inopportuna” la lettura.
A metà degli anni ‘70, da giovane assistente universitario, fui invitato a tenere un corso di Sociologia religiosa all’Istituto Teologico di Assisi. Adottai un manuale di Sociologia della religione e, come secondo testo, Esperienze pastorali. All’esame, i seminaristi francescani portarono il libro Le persecuzioni contro i cristiani nell’Urss al posto del secondo testo. Alla mia obiezione risposero: “il nostro Superiore ci ha ordinato di dirle che questo è il testo giusto, non quello che ha indicato lei”. Ero stato un entusiasta piuttosto ingenuo. L’incarico di insegnamento non mi venne rinnovato, ma per fortuna mi subentrò un bravissimo sociologo di nome Antonio Buoncristiani.
Molti decenni dopo, l’Arcivescovo di Firenze Cardinal Betori, d’intesa con gli allievi di Don Milani, invia carte e testimonianze alla Curia romana affinché sia finalmente riconsiderata la figura del priore di Barbiana. L’azione ha avuto un tale successo che Papa Francesco, accolto dal Cardinale di Firenze, si è voluto recare a pregare sulla tomba del sacerdote proprio a Barbiana.
A questo punto una parte della stampa, in cerca di sensazionalismi, ha lasciato intendere che ci fosse una diversità di vedute tra il Papa (con il Cardinal Bassetti) e il Cardinal Betori sulla possibilità di canonizzare Don Milani. E che, inspiegabilmente, l’Arcivescovo di Firenze si fosse pronunciato contro questa eventualità.
Ripercorrendo le parole di Papa Francesco e le stesse omelie del 25 e del 26 giugno di Betori a Calenzano e a Barbiana, l’illazione si rivela falsa e ingiusta. Francesco, elogiando il modo di servire il Vangelo di Don Milani, ne ha sottolineato le amarezze e le sofferenze subite, ma anche la fedeltà alla Chiesa. Betori, nelle due vigorose omelie, ha paragonato Don Milani a Geremia (il profeta fustigatore) e ad Abramo (scacciato dalla sua terra) per indicarne la grandezza profetica.
Quanto all’etichettamento da santo, l’Arcivescovo di Firenze (cui non compete ai sensi del diritto canonico il compito di avviare un eventuale processo di canonizzazione) non ha fatto altro che rispettare la volontà degli allievi di Don Milani (“non l’avrebbe voluto lui per primo”) e adeguarsi al messaggio lanciato dal Santo Padre a proposito della Madonna di Medjugorje: “La nostra Madre buona non è a capo di un ufficio telegrafico che ogni giorno invia un messaggio a tale ora”. Intendeva il Papa, scontentando tanti pellegrini, che il modo di amare la Madonna e i santi non è quello di trasformarli in oggetti di venerazione un po’ superstiziosa. La stessa cosa ha detto Betori a proposito di Don Milani, per evitare che anche lui venisse evocato alla stregua di un “santino”.
Mai, insomma, come in questa occasione Papa Francesco e Giuseppe Betori si sono trovati tanto in sintonia. Il loro comune messaggio è infatti di una semplicità solare: la fede adulta ha bisogno di testimoni e non di figurine di “santini”, che piacciono soprattutto ai cristiani immaturi e magari ai numerosi laici presunti devoti.
ROBERTO SEGATORI