S. Angela e la misericordia
“Siate misericordiosi come è
misericordioso il Padre celeste” (Lc 6, 36). Questo invito richiama l’altro: “Siate perfetti come il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48).
La misericordia appariva, già all’inizio del Cristianesimo, come completamento della crescita spirituale della perfezione predicata da Gesù. Vi si coglie il rinnovamento della razza umana sfigurata dal peccato, dopo che la disobbedienza originale aveva prodotto l’uccisione di Abele da parte del fratello Caino.
Se leggiamo a fondo i testi biblici sulla misericordia si capisce subito che non si tratta di una semplice pietà verso il prossimo e che non si può ridurre la misericordia al perdono delle offese.
Rivivere l’immagine del “Padre misericordioso” (2Cor 1, 3 e Gc 5, 11) suppone una conversione morale, spirituale, religiosa che è abbandono all’Alleanza che Dio, Amore infinito, ha voluto stabilire con l’uomo per salvarlo dalla morte del peccato e pienamente realizzata in Gesù che “doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso” (Eb 2, 17). Mediatore, Egli ha predicato e compiuto la misericordia del Padre, collocandola con le beatitudini. (Mt 5, 7).
La terminologia greco-neotestamentaria, con le corrispondenze veterotestamentarie, è all’origine dell’evoluzione dei significati della parola misericordia, sia in Oriente sia in Occidente, nelle diverse lingue parlate dai cristiani.
In Occidente la parola latina di misericordia si trova nella Volgata: si svilupperà poi già dai primi secoli confrontandosi con la cultura greco-romana e meno, purtroppo, con quella ebraica.
Se volessimo rubare una frase riassuntiva potremmo fermarci a “pieno abbandono nelle mani misericordiose del Padre”, che implica un’altra parola, “cedere”, tradotta come un uscire dal proprio io per collocarsi con piena fiducia in Dio. Ma il cedere le briglie della nostra persona nelle mani di Dio è solo in apparenza una cosa facile e semplice, perché in realtà è la cosa più complicata e difficile del cammino spirituale di ogni anima.
E lo è stato particolarmente per Angela da Foligno.
Confessione-peccato
La storia di Angela con Dio comincia nel giorno in cui capisce, dopo le prime incertezze, che Dio si è fatto uomo, accettando la croce per amore; e che solo l’amore è risposta adeguata. Dopo i primi passi iniziati con la confessione, che si pone come spartiacque tra la sua vita mondana e l’altra segnata dalla ricerca e dal cammino verso Dio, e lo spogliamento dalle cose e dagli affetti umani per trovare l’amore fedele del Cristo crocifisso, Angela, lungo la via per Assisi, viene come rapita dal Dio che vuole iniziare con lei un dialogo che si prolungherà fino alla vita eterna. La risposta di Angela consiste in una graduale penetrazione del mistero del Crocifisso fino a salire insieme con le tre fedeli compagne che mai abbandonarono il Cristo (la povertà, il disprezzo e il dolore) sulla croce e lì riposare come sul letto nuziale. A questo punto, perfettamente congiunta con l’amante crocifisso, è pronta per rispondere all’invito a sedersi alla mensa del Padre delle misericordie e bere allo stesso calice del Figlio unigenito.
È un perfetto cammino spirituale, ma quanto faticoso! Più faticoso per lei che è una convertita che si accorge di aver consumato inutilmente, se non peggio, trentasette anni di vita. È naturale che voglia recuperare perciò in fretta il tempo perduto, in modo da porsi davanti a Dio con un bilancio personale non eccessivamente deficitario. Vuole cioè fare la sua bella figura davanti a Dio, come aveva cercato di farla sempre, e c’era riuscita, davanti ai cittadini di Foligno e ai suoi familiari.
La prima difficoltà ad arrendersi alla misericordia di Dio è la confessione iniziale.
Pure incalzata e spaventata dalla paura dell’inferno, dovuta alle sue numerose e gravi colpe, non riesce tuttavia a confessarsi, perché si fida ancora troppo di se stessa. Crede di potersela cavare con le sue forze come ha fatto in tante altre occasioni della sua vita. Non si è ancora resa conto che qui si vince perdendo e deponendo le armi. Ma lei non è il tipo che depone le armi, tenta addirittura di partecipare al banchetto dell’Eucaristia senza una vera confessione e non una sola volta, bensì tante volte (multotiens nel testo latino).
Questa tattica ovviamente non ottiene l’effetto sicché, ogni volta, si ritrova prostrata, avvilita e scoraggiata. Dio però non la lascia in pace, perché quando ha adocchiato una preda non se la fa più sfuggire ed Angela è una preda ambita da Dio.
Angela avrebbe imparato a sue spese che le vie di Dio sono diverse dalle proprie vie. Dio la lascerà a lungo piangere e di pianto amaro in ogni passo prima di salire al seguente. Così imparerà a fidarsi di Dio, cioè entrare nella sua misericordia e a consegnarsi sempre più alla sua volontà.
Nel sesto passo del suo cammino spirituale, Angela riceve una maggiore illuminazione di grazia che le fa vedere più a fondo la vera natura del peccato, che non deve essere confuso con l’errore. L’errore infatti consiste nella infrazione di una legge o di una consuetudine. Di esso si ha vergogna o rimorso semplicemente perché ci costringe a riconoscere di non essere stati all’altezza dell’idea che avevamo di noi stessi e da esso possiamo uscire con le nostre forze.
L’errore diventa peccato soltanto quando è visto alla luce di Dio. E quando ci si fa illuminare da questa luce, ci accorgiamo non soltanto della difformità delle nostre azioni dalle consuetudini e dalle leggi, ma soprattutto dell’esclusione di Dio dal nostro progetto di vita e insieme il rifiuto della sua misericordia.
Croce-crocifisso
Un altro scoglio al suo abbandonarsi nelle mani del Dio misericordioso è nel suo cammino verso la croce del Cristo.
All’inizio la contemplazione della croce è insipida, come lei stessa riferisce: “Non avevo ancora capito quale fosse il bene maggiore da me ricevuto: se l’avermi lui sottratta al peccato e all’inferno e convertita alla penitenza, oppure il fatto che Gesù fosse stato crocifisso per me” (I, 65-67).
È un punto importante nell’esperienza ascetica di Angela, come in quella di ogni cristiano: si tratta della scelta tra il dono e il donatore o meglio del passaggio dall’uno all’altro. Angela, all’inizio, si sente liberata dall’inferno e capace di fare penitenza e ne fa molta, ma non riesce a vedere se non la nuda croce. E la croce è strumento di morte e di sofferenza. Per tal motivo non cessa di piangere e di addolorarsi accettando tutto come dovuto ai suoi peccati e così il pensiero della croce le fa nascere dentro un tale ardore, un tale fuoco interiore da compiere gesti clamorosi di distacco da tutto e da tutti. Sono gli stessi gesti di Francesco, con la sola differenza che Angela li compie in privato davanti alla croce, mentre Francesco li aveva compiuti pubblicamente davanti al vescovo di Assisi.
Da questo momento assistiamo a un crescendo impressionante della volontà indomita di Angela che non si arresta davanti a nulla pur di pagare il debito dei suoi peccati. Basta ricordare i verbi usati per capire la temperie del suo carattere: “Decisi di abbandonare ogni cosa per far penitenza e giungere alla croce (I, 12I). Disposi e decisi che se mi dovesse succedere di dover morire di fame, nudità e vergogna, queste tali cose non mi avrebbero fatto recedere dal mio proposito, anche se fossi stata certa che mi sarebbero accaduti tutti quei mali” (I, 132 ss.).
“Volevo che tutte le mie membra patissero la morte, una morte diversa dalla sua, ancor più umiliante” (I, 153). E ancora, vuole morire con una morte più infame di quella dei santi (I, 160) e provare lo stesso dolore di san Giovanni, sotto la croce di Cristo (I, 164 ss.). A questo suo volere fa seguire i fatti. Vende quasi tutti i suoi possedimenti e si sottopone a maggiori e più aspre penitenze.
Ma a Dio preme l’anima di Angela più che le sue opere e l’anima cresce nella grazia non tanto con una purificazione personale dai peccati, quanto con l’affidamento completo nelle mani di Dio che purifica da ogni peccato. Questo Dio inoltre vuole essere riconosciuto e adorato non tanto per le sue opere e le sue grazie, ma per se stesso.
Il maestro divino comincia a guidare Angela perché passi dalla croce (=dolore) al Crocifisso (Cristo, crocifisso per amore suo). La croce esige sofferenza-dolore, il crocifisso esige soprattutto l’amore.
Nella sofferenza si è pur sempre protagonisti, a Cristo crocifisso bisogna consegnarsi, cedere, cioè bisogna amarlo e lasciarsi condurre da lui: in una parola lasciare a lui il ruolo di attore. Ed è questo che costa ad Angela come ad ogni persona umana.
Dietro la spinta delle delusioni e soprattutto dell’illuminazione crescente da parte di Dio, Angela fa una scoperta che sembra ovvia e semplice, ma che si rivelerà di un’importanza decisiva per la sua vita spirituale: prova a guardare la croce dalla parte davanti e si accorge che c’è un uomo crocifisso per amore. “Avendo amati i suoi, li amò fino alla fine”, cioè fino alla croce. È la suprema testimonianza d’amore e di infinita misericordia. All’amore non si può rispondere che con l’amore, per questo Angela si innamora di Cristo crocifisso di un amore che, pur conoscendo una certa gradualità, diventa presto totale e folle e non conoscerà limiti sia a livello affettivo-umano sia spirituale.
Angela comincia a fidarsi veramente di Dio e sperimenta come tutte le virtù non siano tanto più frutto dello sforzo e delle capacità umane, ma vero dono di Dio, frutto dell’amore. È Lui che la fa casta, pura, obbediente anche se le sarà sempre richiesto il suo apporto personale e libero come risposta al dono.
Dunque tutto è dono del Dio che per amore nostro ha sacrificato il Figlio sulla croce.
Questa accettazione della misericordia di Dio la sprona a cercare anche quella delle creature.
Angela comincerà a capirlo quando si accorgerà, come fa scrivere nel suo Liber: “di aver offeso tutte le creature che erano state create per me. Supplicavo allora tutte le creature, che vedevo di aver singolarmente offeso, che non mi accusassero. Invocavo tutti i santi e la Vergine Beata che intercedessero per me e supplicassero l’Amore, che mi aveva concesso tante grazie, affinché, da morta, mi facessero tornare viva. E mi pareva che tutte le creature e i santi provassero pietà di me” (I, 49-58).
È una ‘pietas’ che sa di accoglienza, di benevolenza cioè di misericordia. Le creature, tutto il Creato in quanto destinatario primo della misericordia creatrice di Dio, mostra ad Angela l’amore del Creatore che risplende “in una parte più e meno altrove” (Divina Commedia). E sono tutte le creature: il fiore come il piccolo verme, l’acqua con le stelle, il sole e la luna, i monti e gli alberi, le donne e gli uomini insieme ai santi e agli angeli, che si inchinano per mostrare visibilmente ad Angela quale sia il vero rapporto con Dio. È una convergenza cosmica e divina, è la risposta corale del creato al grande dono del Creatore. Entrare nella misericordia Dio è entrare anzitutto in questo ‘movimento’ di tutte le cose create che sperimentano e vivono il respiro di Dio, il commuoversi delle sue viscere.
Dopo aver ricevuto e accettato la misericordia di Dio anche attraverso le creature si aprono anche le sue ‘viscere di misericordia’ e saprà accettare il nome nuovo che Dio ha coniato per lei: “Amata”, vedendo unicamente nell’amore di Dio tutta la sua piccola esistenza e la sua salvezza e che, ben presto, riverserà con abbondanza sui fratelli e sorelle, a cominciare dai più derelitti, i lebbrosi.
“Nel giorno di giovedì santo (3 aprile 1292) dissi alla mia compagna di andare insieme alla ricerca di Cristo: ‘Andiamo all’ospedale e vedrai che forse troveremo Cristo tra quei poveri, carichi di mille pene ed afflizioni’. Ci avviammo portando con noi alcune preziose acconciature del capo, poiché non avevamo nient’altro, e giunte colà pregammo un’inserviente dell’ospedale, che si chiamava Gigliola, di vendere quegli indumenti per comprare qualcosa da mangiare per i poveri dell’ospedale. Quell’inserviente dapprima fece qualche resistenza pensando che volessimo burlarci di lei, ma alla fine, dietro le nostre insistenze, si lasciò convincere. Vendette i nostri veli e i nostri scialli e comprò con il ricavato alcuni pesci, mentre noi da parte nostra avevamo portato del pane che ci era stato dato per il nostro sostentamento. Distribuimmo tutto ai poveri, lavammo i piedi alle donne, le mani degli uomini e in particolare di un lebbroso che aveva gli arti putrefatti e marci tanto che la carne cadeva a pezzi, e bevemmo poi l’acqua di quel lavaggio. Quella volta provammo una dolcezza tutta speciale, tanto che per la strada ci sentivamo come ripiene di una indicibile soavità, quasi ci fossimo comunicate. Mi sembrava infatti di essermi comunicata, poiché sentivo quella immensa soavità, quasi avessi ricevuto il Signore” (V, 122-141).
Qui Angela non usa una compassione-misericordia soltanto morale, ma attinge quella teologica che le fa scoprire Cristo-Dio nei lebbrosi come nell’Eucaristia.
P. DOMENICO ALFONSI