“Io, allenatore, nei campi profughi della Grecia” Se Idomeni ripensa il presepe. Erode contro Betlemme
Non avrei mai detto che, un giorno, pensando al calcio, mi sarei interrogata sul futuro di questo mondo, nel bel mezzo di un campo profughi. Forse perché non avevo mai notato che, in fondo, una porta da calcio non è così lontana da una tenda. O forse per quel ruolo quasi sacro che in questa parte del mondo il calcio si è guadagnato, per cui non si penserebbe mai che un allenatore se ne vada a vivere in una tenda. Mohamad, capelli notte e occhi petrolio, è un giovane afgano, coach fierissimo della “tricolore afgana under 16” – mi dice con una punta d’orgoglio. Mohamad sfoggia una maglia biancoazzurra, tributo inconfondibile al calcio del Bel Paese. Forse per questo lo fermo, tra le centinaia di persone che, nel campo profughi, attendono che si regali loro un futuro. “I Juventus!” esclama poggiando la schiena a un muro mentre guarda dei ragazzini attentare a una palla per fare goal. Mohammed mi mostra le foto dei suoi ragazzi, tutti rigorosamente schierati in campo, bellissimi nelle loro divise, ritratti in un campo da calcio di Kabul. Sarà che lo sport – aveva detto Madiba – “ha il potere di cambiare il mondo” che mi sembra che ora all’Afghanistan, senza Mohamad, sia venuto a mancare un pezzo importante. “Ora abito in una tenda. Anche a Kabul è arrivato il Daesh. Non posso più essere un allenatore”. Idomeni è geometria che varia, una distesa di tende analfabete della metrica che si impone ai campi ufficiali, dove invece Mohammed ha trovato dimora. Una giornata non basta per familiarizzarsi con gli spazi di Idomeni che conta scuole di inglese, hammam per bambini, punto del tè e persino un piccolo centro cucito, una chiesa e una moschea. Le novemila persone che popolano l’area non sembrano scalfire la sua aura da villaggio fatta di relazioni forti, pentole sul fuoco, fumi e capanne. A Idomeni persino le tende hanno storie da favellare, exempla di un’architettura che lei sola ha accordato ai suoi inquilini: chi ha creato cortili e chi piccole verande, chi ha intrecciato teli per il cantuccio cucina forte di quell’ingegno leonardesco che tutti da bambini abbiamo almeno una volta vagheggiato, chi, infine, ha costruito tetti appiccicando bastoni a rumors e sogno. Ma riapre il confine? Ahmed stende impasti e sforna focacce, acciambellato sotto il vagone di un vecchio treno, un tubo per matterello e una lastra di latta per tavola da lavoro. Ne ha sfornato una pila mentre conversiamo, rimpinzata a dovere con del formaggio scaldato sul carbone, frutto di quel forno nascosto che conferisce alle focacce un che di ingrediente segreto. Nel villaggio di Idomeni tutti fanno cenno perché si entri nella propria tenda, chi ti imbastisce tavolini, chi ti porge un cuscino per conversare davanti ad una tazza di tè mentre fuori si friggono zucchine e si barattano falafel, tra un taglio di capelli e il make up delle più raffinate estetiste siriane. Una bimbetta con un vestitino blu di Persia fa la girandola con la sua gonna, sulla strada che separa l’area B dall’area D. Il sole mi ha prostrato troppo per pensare di fare resistenza alla sua decisione di prendermi per mano e di portarmi a sedere. Rasha ha 7 anni ma sembra più piccola della sua età. “Mamma ho portato un’amica” esclama soddisfatta del suo risultato sollecitandomi nella sua tenda. La piccola traffica con una minuscola crema solare, con cui delibera di rinfrescarmi il viso e le braccia. La lascio fare. Il sole brucia e Rasha mi riposa con le sue carezze.
Afran è curdo, non ha portato molto con sé dalla Siria, dice, al di fuori del suo saz, che pizzica per ore nel cortile della sua tenda. Afran sembra un po’ il De André di Idomeni, con quel suo pizzicato melancolico che profuma tutto di Creuza de ma, condito dallo schiocco di dita dei vicini di tenda. Sotto il suo telo sembra di assaporare altre latitudini ma basta affacciarsi fuori per ritrovare la bussola. Perché la tenda di Afran-De André guarda lì, all’imbocco della frontiera, che Afran, composto, dirimpetta tutto il giorno. Forse è perché capire i conflitti a volte è più importante che volerli risolvere, che Afran è lì, come a chiedere al confine risposte che sinora nessuno gli ha dato. Lo osservo, con quel suo sguardo fiero. Afran nonostante tutto è un uomo libero perché è capace di attendere quello che non ha ancora. Qualcuno l’ha voluta chiamare “la Dachau dei giorni nostri” ma, forse, il paragone è un po’ ingiusto. Prima di tutto nei confronti delle centinaia di associazioni e volontari che, giunti da tutto il mondo, si arrocciano le maniche per Idomeni e il cui numero si perde davvero tra le tende. Qualcuno mi ha detto che, così descritta, Idomeni sembra invece un presepe. Ma non un presepe nella sua accezione bucolica, no: un presepe nella sua accezione più vera, con i suoi mestieri poveri, con le piccole scene, con la vita della gente. E mi si dice che sì, in fondo, Capanna è ogni tenda. Perché per nessuno di loro “c’era posto nell’albergo”. Ma mi si scusi se rettifico. Che sia capanna o porta da calcio, ieri Erode è passato con le sue ruspe. Betlemme deve farsi più in là.
Rientro ad Atene, nella mia casa di Neos Kosmos, dove condivido la vita con piccoli e grandi rifugiati. Una mamma siriana mi sorride, mostrando felice il disegno che ha appena appeso al muro, nella bacheca d’onore della sala comune. Hada Makedonia, “Questa è la Macedonia” mi dice accennando a Idomeni. Ci sono io in primo piano, con la mia tavolozza di colori che dispenso ai rifugiati, come faccio sempre quando sono a casa. C’è anche lei con il piccolo Jakob in una tenda, in mezzo ad altre che fanno capolino nel disegno. Le contemplo tutte stupita. Le tende di Suham sembrano davvero tante piccole natività. Betlemme, da qualche parte, esiste ancora.
FRANCESCA BRUFANI