Ai giovani quintanari. La Quintana è amore e libertà dell’uomo
Sulla Quintana sono stati versati fiumi d’inchiostro. Fiumi docili che defluiscono colmi di ricordi, ma anche torrenti impetuosi che tutto sradicano, travolgono. Si ha quasi l’impressione che quest’acqua non bagni, ma scivoli sulla pelle. E la colpa non è dell’acqua, ma della pelle. Perché solo i quintanari hanno la pelle giusta per farcisi il bagno, per inzupparsi fino alle ossa nella loro Festa. La pelle giusta io me la sono fatta molti anni fa. E spero di non averla persa strada facendo. Bevanate di nascita e nocerino d’adozione, quella pelle non ce l’avevo per jus sanguinis. Nel 1962 mi feci folignate per scelta. Scelsi Foligno e non Perugia, sebbene frequentassi il capoluogo quotidianamente. Dalle finestre della mia casa di via Franco Ciri vedevo scorrere il Topino e quando l’odore delle sue acque si faceva dolciastro per gli scarichi dello Zuccherificio, sentivo il rullare dei tamburi dello Spada provenire dalle Conce. Non starò qui a ricordare come divenni presidente dell’Ente Giostra. Voglio solo rivolgermi ai giovani quintanari per testimoniare che le cose acquisite, desiderate, vanno difese, coccolate, guadagnate di nuovo. Tenetevi cara la vostra Quintana, oggi che di validi educatori se ne trovano pochi. Ormai il mio rapporto con la manifestazione si rinnova solo in coincidenza con il corteo storico e con il Campo, dove avverto tutto il vostro affetto. La Quintana non è un gioco, non uno spettacolo organizzato per noi o per il turista, bensì una necessità, un’urgenza della città, senza la quale Foligno non sarebbe la stessa. La Giostra non è facile da comprendere, soprattutto se si perde la testa nel corso delle sue tornate, se si attribuisce troppa importanza all’otto di gara o al cavallo lanciato al galoppo. La Giostra per i quintanari non è una frazione di tempo, ma una vita intera. Anche a raccontarla non ci si può fermare a precedenti, fatti, nomi, luoghi, date, circostanze. C’è un confine intimo, invalicabile per i più. Il passaporto non serve. Serve solo la passione. Sono molto vecchio e l’esperienza mi ha dato modo di capire cosa cerca chi si bagna in quest’acqua, in questi avvenimenti che non sono soltanto un fatto, ma un clima, un’atmosfera, un modo di pensare e di vivere, un mai dimenticato ideale. Indossando il costume della mia Quintana ho provato la sensazione di colui che un momento prima girava nudo per la città. Qualcuno ha scritto che in certe manifestazioni storiche s’avverte un’aria di carnevale, un imbarazzo estetico dei figuranti, qualcosa che ricorda una mascherata di provincia. Parole dette a vanvera. Un quintanaro si sente nei suoi panni solo quando indossa quelli del rione. Chi ama la Quintana si considera in divisa nei restanti giorni dell’anno, quando indossa i panni borghesi. La Quintana è amore, libertà dell’uomo, senso della collettività, amicizia che urge, ricerca di ideali. È democrazia, dittatura, litigi. È pace e guerra, elezioni, sodalizi, congiure, alleanze. C’è poi una vita segreta, ignota ai più: quella che esplode al Campo, che accende gli spalti, una piazza, una folla quando arriva il momento del gareggiare. Eppure, nell’animo del quintanaro alberga un’eterna contraddizione. Pur avendo uno spiccato senso associativo egli resta l’ultimo campione di un sano individualismo. È così che mantiene in vita quelle perfette società che sono i rioni; tanto che ogni rione costituisce un’entità a parte. Per voi giovani folignati che vi avvicinate alla manifestazione la Quintana rappresenta un esame di maturità sociale e l’attaccamento alla vita rionale ne costituisce la più importante conferma. Nel rione abita quel popolo che ancora risponde all’appello della sua campana, che s’inchina davanti alla benedizione del nostro Vescovo, che si raduna in assemblea, che elegge il priore, il suo governo, quello che svolge una politica interna e una estera, che ordina ed è ubbidito, che raccoglie fondi e li amministra. Quando nasce un bambino o una bambina il rione si occupa attivamente di lui, lo assiste al Battesimo, è con lui se si celebra un matrimonio, una festa. Se c’è un lutto è presente in quella casa. Ecco perché per comprendere la Quintana bisogna prima comprendere la vita dei rioni, che sono alla base di tutto. Al loro interno sta di casa la tradizione, la libertà, la smania di autonomia, il senso di appartenenza e infine la gloria. La porta della sede è l’ingresso della vostra Patria. Ci troverete le memorie, i palii, quelli scoloriti e quelli recenti, ci sono i costumi vecchi e nuovi, le carte con i nomi dei priori, dei cavalieri, dei cavalli famosi. Nelle chiacchiere notturne intorno ad un braciere, in cui anche mio nipote Furio, e ne sono felice, s’attarda, si rievocano i personaggi, le gesta, le vicende passate; si fantastica sulle speranze di domani. La speranza è il motore della manifestazione che si riassume nell’aspettativa di veder vincere il proprio cavaliere. Nella peggiore delle ipotesi in quella di non assistere al successo di un rione avversario. Poi arriva la febbre del Campo, legata misteriosamente, impalpabilmente, ai dieci binomi. E per concludere arriva il verdetto. E l’urlo va potente e libero, sguaiato e civilissimo, ardente e fazioso, affilato come la punta di una lancia che colpisce dritto al cuore del quintanaro. Chi la Quintana non la capisce può rimanere a casa a seguire il Gran Premio. Per penetrare certe cose ci vuole la pelle giusta. I quintanari non ne fanno certo una tragedia, se qualcuno non ce l’ha.
ARIODANTE PICUTI