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“Nel buio non ho perso la speranza”. Il racconto dell’umbro-libico che sfidò Gheddafi

“Una Libia in pace è tetto per migranti. Il mio Paese tornerà a splendere”

Abu Salim è una di quelle carceri dove chi entra non ha speranza di uscire. Wael, papà libico e mamma umbra, è nato a pochi passi, nella Tripoli degli anni ‘60. La Libia che ha lasciato è distante da quella odierna, un buco nero tra una costellazione di stati che sembrano aver perso il nord. Il suo viso radioso e ambrato la dice lunga sul suo spirito. Se Paradiso è essere sempre in lotta con qualcosa, la sua vita, certo, lo riflette a pieno. “La Libia che conoscevo era triste. A quei tempi a Tripoli vedevi gli studenti impiccati nelle piazze o esposti sui fili della corrente. Sui pali c’era scritto cosa avevano fatto, È un bastardo, È un cane e cose del genere. E la gente aveva fame. Nell’’84 studiavo Ingegneria. Avevo dato fuoco ad alcuni edifici governativi, di cui uno proprio all’università, il Tempio dove Gheddafi veniva a parlare agli studenti. Io ero capo di una cellula universitaria e Gheddafi doveva venire per fare il suo sermone, ma da un’altra parte perché il solito posto, appunto, lo avevo bruciato. Avevamo piazzato delle armi nell’interrato e aspettavamo il giorno. Finché non ci hanno preso. Sono stato per quattro anni in una cella sotterranea, senza mai vedere il sole. Per quattro anni ho dormito sul pavimento. Nessuno sapeva se fossi vivo o morto, la mia famiglia non sapeva che fine avessi fatto. Sparito dicevano”. Wael si illumina quando gli chiediamo dove avesse trovato la forza per vivere senza luce. Proviamo a cercare nei suoi occhi, ma non ci sono scorie d’odio dentro. “Per me la mia causa era giusta. Se avessi fatto vedere ai miei carcerieri lo sguardo moscio avrei perso. Allora l’unico modo per combattere era non farglielo vedere. Ero convinto che ce l’avrei fatta, anche quando mi dicevano Preparati, domani ti picchiamo o quando puntavano la pistola verso una cella vuota e sparavano per farmi paura. Ma io non sapevo fosse vuota. Gli altri detenuti mi avevano soprannominato Jelmud che in arabo significa tosto. Me lo avevano dato perché ero il più piccolo”. “Una mattina – prosegue – Gheddafi è arrivato in pompa magna per annunciare l’amnistia, cavalcando un enorme bulldozer per buttare giù la cancellata. Ero libero ma mio padre mi cacciò. È una trappola mi disse”. Un’intuizione fortunata, ci dice, perché mentre fuggiva in Umbria, quelli che erano stati liberati con lui venivano uccisi uno a uno. “Quando sono venuto qui ho lasciato tutto, non avevo voglia di ricominciare a combattere. Ho iniziato a lavorare. I miei genitori, inibiti dal regime, non potevano mandarmi soldi e io potevo contare solo su me stesso”.
Wael aveva un sogno, quello di vedere Abu Salim libera. È per questo che al soffiare delle Primavere arabe è ripartito, per tornare nel luogo delle sue battaglie. “Nel 2011 non potevo entrare regolarmente perché sul mio nome pendeva ancora una condanna a morte. Allora ho preso il biglietto per la Tunisia e sono entrato illegalmente, attraverso il deserto. A Tripoli funzionava così: si attaccava di notte, verso le 11, e si facevano attacchi mirati. Quando sei lì le pallottole ti passano davanti e non hai nemmeno il tempo per ragionare. Alle sei tutti sparivano e la città tornava a dormire. Tripoli era sempre la roccaforte di Gheddafi. Poi c’erano quelle giornate in cui eri fermo. Ma quelle notti si urla. Si va all’attacco e basta”. “Con i bombardamenti Abu Salim venne abbandonato – prosegue Wael senza smettere il suo entusiasmo -. Andai a vedere la cella dove stavo. Era la vittoria! Alcuni mi hanno riconosciuto, Wael ben tornato! Dopo vent’anni! Un giornalista mi ha chiesto: Perché tutti ti festeggiano? Io gli ho risposto: Beh, sono stato ospite di questo albergo a cinque stelle per quattro anni!
Wael ricorda un po’ Ciaula scopre la Luna, felice infine di essere uscito dal buio e di aver scoperto che c’è una Luna, qualcosa per cui sperare, anche quando dal buio non si vede. “Ho fiducia per il futuro. La Libia potrebbe essere una piattaforma per l’Africa, molti migranti potrebbero essere assorbiti lì se ci fosse la pace. È solo questione di tempo. Il mio paese tornerà a splendere”.

FRANCESCA BRUFANI

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