Vagabondo che son io. La storia di Asmat
Incontro Asmat ad Atene, in un laboratorio per bambini, in uno degli alberghi in cui Caritas Hellas ospita i rifugiati. Anche lui è lì, a guardare i piccoli rifugiati affaccendarsi con pennarelli e glitter, aiutati dai volontari che sforbiciano cartoncini colorati. Asmat è l’unico grande che disegna, mentre gli altri grandi parlano tra loro. La sua mano ha un tratto elegante e sicuro, sembra quasi una danza sul foglio. “Mi mancano i miei colori, non riesco a disegnare” – mi dice. Anche se grande, i suoi occhi cerulei tradiscono il cuore di un bambino. “Un bel cuore vale molto più di una bella faccia”, mi ripete spesso. I suoi tratti e i suoi colori lo confonderebbero benissimo con un europeo, con quell’Europa in cui è riuscito ad entrare per una manciata di ore, appena prima che le scrivanie balcaniche decidessero di chiudere le frontiere, rendendo Idomeni la Colonna d’Ercole degli afghani. Perché qui, per loro, ora, finisce il mondo. Questa è la sua storia.
Mi chiamo Asmat, ho 27 anni e vengo dall’Afghanistan, dalla provincia di Kapisa. Scrivo dall’Austria, mi trovo in un campo rifugiati, dopo aver viaggiato per quasi due mesi. Non so quale sia il mio futuro.
In Afghanistan facevo il deejay ma lavoravo soprattutto come interprete. Era un lavoro pericoloso. Mio padre mi diceva sempre: “Più lingue conosci, più persone puoi essere, più mondi puoi incontrare”. Così ho iniziato a studiare l’inglese e il russo da solo.
Mio padre lavorava nell’esercito assieme ai russi, a Bagram, vicino Kabul, dove c’è un aeroporto militare. Uno di questi russi, che si era ubriacato, gli ha sparato dieci colpi con la pistola. Mio padre ha perso il lavoro ed è stato a casa per quasi tre anni. Quando si è rimesso ha comprato una macchina e ha iniziato a lavorare come autista. Mia madre, invece, è un’insegnante di storia, lavora a scuola. Mi manca la mia famiglia… Durante la guerra, voglio dire il regime dei talebani, la scuola era chiusa e non c’era più lavoro per mia madre. I talebani volevano uccidere mio padre, gli dicevano “Tu sei comunista, non sei musulmano”. Mio padre decise di lasciare l’Afghanistan e noi riuscimmo ad ottenere un visto per l’Iran. Desiderava che io e i miei fratelli andassimo a scuola ma il governo iraniano non era d’accordo. La vita non è facile in Iran per gli afghani. Mio padre disse a mia madre che avremmo dovuto andare in Pakistan, “I miei figli devono studiare” – diceva. Così siamo arrivati in Pakistan. Di nuovo, un nuovo paese. Mia madre è riuscita ad aprire una scuola e io ho imparato l’inglese.
Quando il regime dei talebani è finito, siamo tornati in Afghanistan. Insieme a noi sono arrivati anche gli americani. Avevano bisogno di un interprete e io volevo lavorare perché volevo aiutare la mia famiglia e aiutare mio fratello a studiare. Accompagnavo i giornalisti nel loro lavoro perché parlavo inglese ma i talebani non si sono fermati e hanno iniziato a creare di nuovo problemi e a fare fuori le persone che lavoravano con gli americani. Hanno ucciso mio fratello. E mio cugino.
Sono scappato dall’Afghanistan, sono andato in Russia. Dalla Russia volevo andarmene in Europa ma mi hanno preso. Sono stato in prigione per un anno, poi mi hanno rimandato in Afghanistan. Mio padre era in ospedale e io dovevo per forza lavorare per sostenere la mia famiglia. Ho cambiato zona tre volte ma ogni volta “loro” mi hanno preso e hanno provato ad uccidermi. Anche quando ho smesso di lavorare hanno continuato a mandarmi minacce.
In Afghanistan suonavo la chitarra e disegnavo. Non ero un artista di professione, ma disegnavo. Nel mio primo disegno c’era la fiamma di una candela, con dentro un volto che cade in frantumi, come uno specchio. Forse ero io, forse il mio paese, forse le persone, che perdono la loro faccia quando fanno del male a qualcuno. Prima di partire ne ho fatto un altro di disegno. Ho disegnato me stesso nella notte. Mi sentivo solo. Avevo il desiderio di sentire qualcuno vicino, qualcuno che potesse capirmi.
Ho lasciato l’Afghanistan per l’Europa e ora mi trovo in un campo rifugiati. Mi manca molto la mia famiglia e non ho nessun tipo di documento. La notte non riesco a dormire perché mi mancano i miei familiari. Non so cosa dovrei fare, quanto tempo dovrei aspettare per i miei documenti, dove dovrei andare. Se ci sarà un nuovo paese. Forse mi rimanderanno indietro in Afghanistan, forse no, ma continuo ad essere preoccupato. Devo aiutare la mia famiglia, ma non so come. Amo la mia famiglia ma senza documenti non posso aiutarli. Nel mio viaggio non ho incontrato nessuno che potesse capirmi. Continuo a viaggiare. Continuo a essere il mio disegno.
FRANCESCA BRUFANI