Gli Ultimi saranno i Primi. Alla frontiera a fianco dei rifugiati
“Quella lettera che scrissi al Papa”. La storia di Mehdi, profugo musulmano, nel limbo di Idomeni
“Facciamo un gioco. Immagina che questa sia una gara. Vince chi passa per ultimo la frontiera. Chi torna indietro ha perso. Ora siamo in pochi. Stiamo per vincere”.
A volte una sola lettera può fare la differenza. A Idomeni, alla frontiera greco-macedone, è tutta una questione di “q”. Perché se chi viene dall’Iraq è legittimato a passare il confine, a chi viene dall’Iran viene sbarrata la strada. “Una conseguenza del post Parigi” si dice, un effetto domino rimbalzato dalla Slovenia alla Macedonia che si è trovata costretta al copy and paste delle politiche adottate dai vicini di casa.
Sono due mesi che ho lasciato Foligno alla volta della Grecia, un anno di sevizio con i Caschi Bianchi di Caritas Italiana per abbracciare le povertà di un paese fratello e a cui Foligno è legata a doppio nodo dai Gemellaggi Solidali. Di qui tutti i giorni passa la storia, una storia che mi ha spinto sulla rotta di chi fugge per monitorare i bisogni dei centinaia di rifugiati e ascoltare le loro ferite. L’esercito macedone è schierato assieme alla polizia, le scritte in cirillico ben in evidenza, bardati di tutto punto in versione anti-sommossa. Ma questa gente con Parigi ha poco a che spartire. Migliaia di persone si accampano al confine in tende o alloggi di fortuna, tutte compostamente profuse in un’attesa di cui non conoscono la fine. La frontiera è tappezzata di scritte, “Non siamo terroristi”, e con i bus che continuano ad arrivare dai porti e il confine bloccato, perso in mezzo al nulla, Idomeni rischia il collasso. Nel limbo di Idomeni nessuno pensa davvero di tornarsene indietro: la Turchia fa paura e la Grecia della crisi non è in grado di regalare futuro. Proseguire è l’unica strada ma non c’è Stato che si faccia avanti per srotolare tappeti. Anghela Anghela è l’appello che unisce le genti di ogni lingua. “Idomeni è una prigione a cielo aperto”, esclama un giovane marocchino.
Un gruppo di giovani profughi iraniani si è appena cucito la bocca, dirimpetto ai soldati macedoni che hanno ricevuto il diktat di non farli passare, insieme a quanti non vengono ufficialmente riconosciuti come rifugiati. Cinque giovani persiani si sono tolti maglia, camicia e canottiera in segno di protesta, in dispregio delle rigide temperature notturne, mentre un totale di 21 ragazzi imbastisce da giorni – esattamente dal 18 novembre – un vero e proprio sciopero della fame. Alcuni di loro si sciolgono in lacrime, ad un palmo dalle tute mimetiche e dal filo spinato; altri si sono cinti le labbra con il nastro adesivo attirando l’attenzione dei media di tutto il mondo. Sopra, in rosso, hanno scritto la parola “Equity” in uno stampatello ben leggibile. I soldati macedoni non sono abituati a parlare troppo, quello più avanti con gli anni mostra un po’ di timidezza al nostro Come stai?. “Sono qui da due giorni”, risponde con lo sguardo stanco mentre i suoi occhi celeste chiaro guardano altrove per evitare il dolore dei giovani che piangono ai suoi piedi.
Mehdi è un giovane papà iraniano, originario di Teheran. Sembra uno di quei bellissimi papà da copertina, ciglia lunghe e occhi carbone, il suo piccolo sempre in collo. La moglie lo ha lasciato dopo pochi anni di matrimonio e lui è rimasto solo con il suo bimbo in braccio, prima nella vecchia Persia, poi ad Idomeni, nel mosaico di rifiuti che colora le campagne elleniche da lontano. Qui al confine i volontari sono troppo pochi per riuscire a tenere pulito. Il campo, studiato per essere un punto di passaggio dove i rifugiati potevano riposarsi qualche ora, si è ritrovato a diventare casa per tutti gli Ultimi, per quanti sono stati tagliati fuori dalle nuove regole del confine. I pasti non sono a sufficienza, l’odore acre dei bagni impera quasi ovunque, l’acqua delle docce è gelida e i tendoni promiscui.
Mehdi è felice, l’attesa lo ha trasformato nell’interprete ufficiale della BBC. Lui non sciopera come gli altri, deve essere sufficientemente forte per continuare a prendere in braccio suo figlio. Nella sua vita prima della traversata era un giudice, una professione imbrigliata dalle regole di un regime tutt’altro che democratico. Da quando è bloccato al campo ha regalato a tv e giornali numerose interviste ma ora che ci ha messo la faccia ha paura di essere arrestato nell’ipotesi in cui l’Europa gli scriva l’indirizzo per un biglietto di sola andata per Teheran. L’attesa è una ritualità che si ripete ad ogni confine, un esercizio di pazienza misto a speranza in cui chi viaggia deve necessariamente entrare.
Navid gioca con un palloncino verde da cui non si separa mai. “Baba perché siamo qui ogni giorno?”. Sono cinque giorni che conosco Mehdi e ogni volta il piccolo pesàr snocciola come un mantra le sue domande di bambino di tre anni. “Dove sono i miei giocattoli?”.
Idomeni è diventato il suo campo da gioco, in uno stile di cui Benigni andrebbe fiero. “Immagina di essere in una gara. I siriani sono partiti tutti. Loro hanno perso perché sono già arrivati in Germania, altri sono tornati ad Atene e hanno perso pure loro. Noi siamo ancora qui, ma per vincere dobbiamo aspettare ancora”.
Una volta Mehdi ha scritto una lettera al Papa. “Un giorno ho deciso di scrivere una lettera a Papa Benedetto, nel 2005. Gli ho chiesto di pregare per la Pace nel mondo, in particolare per la Siria. Sono musulmano ma credo molto in Gesù. Ho scritto al Papa come se fosse il mio baba, il mio papà. Mi sono firmato così, il tuo piccolo pesàr musulmano, il tuo piccolo bambino”.
Cingo il piccolo Navid del bracciale che porto al polso, è un piccolo rosario dalle perline di legno, un regalo senza il quale non mi metto mai in viaggio. Gli occhi di Mehdi si velano di rugiada.
“Facciamo un gioco. Ci rivediamo presto in un altro paese. Ci rivediamo in Germania. Gli Ultimi saranno i Primi”. Safar bekhei, buon viaggio amico mio.
FRANCESCA BRUFANI