Le aziende italiane non amano la cooperazione e perdono competitività
L’esperienza del trentenne folignate Pietro Elia Campana, in Svezia come ricercatore
La prima volta, nel 2005, è andato in Svezia perché suo fratello studiava all’Università di Uppsala e subito è rimato stupito dall’efficiente sistema svedese. Due anni dopo vi è ritornato con il progetto Erasmus, rimanendo ancora più meravigliato dal sistema accademico. Dopo una laurea in Ingegneria ambientale conseguita all’Università di Perugia, concluso il dottorato, lavora in terra scandinava come ricercatore. Pietro Elia Campana racconta la sua esperienza a quasi tremila chilometri di distanza dall’Italia e fa il punto della situazione sulla ricerca in Italia e sulla condizione dei ricercatori italiani all’estero.
Nel 2011, Pietro Elia, sei tornato in Svezia per cominciare il dottorato: di cosa ti sei occupato nella tua ricerca?
Mi sono interessato del dimensionamento e dell’ottimizzazione tecnico-economica degli impianti di pompaggio fotovoltaico per applicazioni agricole e applicazioni strategiche per arginare il processo di desertificazione.
Durante il dottorato sei stato al fianco di due grandi personalità del panorama scientifico. Cosa ha significato per te lavorare con loro? Che tipo di collaborazione ne è nata?
Supervisore della mia tesi è stato il prof. Jinyue Yan, editore capo di Applied Energy, una delle migliori riviste scientifiche nell’ambito dell’ingegneria energetica, professore universitario in Svezia e professore ospite in più di dieci università in Cina. È e rimarrà il mio mentore: continuerò a lavorare per lui nei prossimi anni, sia come ricercatore, sia per il suo giornale, partecipando all’organizzazione della sua conferenza annuale dell’energetica applicata ICAE. Il mio oppositore, invece, è stato il prof. Lawrence Kazmerski, professore all’università di Colorado e direttore del Laboratorio Nazionale di Energie Rinnovabili (NREL) in America. Ha scritto il primo articolo sui pannelli fotovoltaici amorfi ed è considerato uno dei padri della tecnologia fotovoltaica: probabilmente sarà uno dei candidati al prossimo premio Nobel. Sono le persone più simpatiche e umili che io abbia incontrato. Da questo puoi capire che ho imparato tantissimo dal punto di vista tecnico ma soprattutto umano.
Hai finito il dottorato da sole tre settimane: quali prospettive di lavoro ti si presentano ora?
Al momento sto portando a termine dei lavori iniziati in precedenza e preparo domande per richiedere fondi per la ricerca presso la Comunità Europea e presso altri enti, svedesi o internazionali. Sto ricevendo, però, molte offerte di lavoro sia in America, sia in Svezia e in Cina, dove già ho viaggiato per ragioni di lavoro. Sto avendo, inoltre, la possibilità di fare colloqui presso istituti stranieri di prestigio.
Torneresti a lavorare in Italia? Perché?
Sì, ma alle stesse condizioni lavorative che ho qui. Sul perché ci sarebbe da discutere tantissimo, ma in primis mi piacerebbe aiutare il mio Paese. Quando cominci a girare il mondo, ti accorgi delle innumerevoli potenzialità che ha l’Italia: potenzialità che vengono usate solo all’1%. È a questo punto che inizi a pensare che ti piacerebbe davvero cercare di cambiare la rotta o, perlomeno, aiutare a cambiare rotta.
Quali opportunità, di studio e di lavoro, pensi che l’esperienza in Svezia ti abbia offerto in più rispetto all’Italia?
L’opportunità di viaggiare, di entrare a diretto contatto con numerosi ricercatori di ogni parte del mondo con i quali scambiare idee. Soprattutto l’opportunità di sviluppare le proprie idee senza troppi vincoli: all’estero hanno più soldi per la ricerca, il che rende più facile mandare avanti i progetti e, quindi, ottenere risultati migliori.
Come mai, per te, l’Italia non sa valorizzare adeguatamente i ricercatori italiani e il loro lavoro?
L’Italia non investe nella ricerca come gli altri Paesi, nonostante la ricerca sia un settore strategico dal momento che la maggior parte dei settori produttivi si è spostata in Asia. La domanda dovrebbe essere fatta alla classe politica dirigente.
Che differenza hai notato nel modo di approcciare al lavoro di ricerca da parte delle aziende straniere rispetto a quelle italiane?
Le aziende straniere amano la parola “cooperazione”, le italiane un po’ meno. Ne deriva una perdita di competitività, specialmente per le piccole aziende che non hanno un dipartimento di ricerca e sviluppo.
Che giudizio hanno gli stranieri sulle competenze e sulla professionalità dei ricercatori italiani?
Lo stato italiano investe moltissimo sulla nostra educazione scolastica e accademica. Il problema è che molte volte ne usufruiscono altre nazioni e, dati alla mano, la perdita economica che ne consegue per lo stato italiano è di 195 miliardi di euro. Ovunque vai, trovi ricercatori italiani con ottimi risultati perché combinano alta preparazione tecnica e creatività.
Che critiche muoveresti al modo di gestire la ricerca da parte delle aziende italiane?
Le aziende italiane hanno paura di collaborare sia con altre aziende sia con le università e perdono la possibilità di migliorare la competitività dell’azienda. Non ho mai lavorato in diverse aziende straniere e, quindi, non posso risponderti oggettivamente. Ti posso solo portare un esempio: il proprietario di una piccola società di consulenza svedese per cui lavoro saltuariamente per progetti di impianti fotovoltaici, nonostante non possa avere le risorse economiche per effettuare ricerca, spende il suo tempo libero facendo ricerca da solo e contattando l’università ogni volta ci siano fondi disponibili per effettuare progetti e sviluppare prodotti. Ancora: il gruppo di ricerca del Prof. Yan, di cui io faccio parte, sta lavorando per un progetto finanziato dalla Comunità Europea per 12 milioni di euro per impianti di generazione distribuita dell’energia. Il progetto iniziale è stato avviato da un’università greca che ha costruito un team di venti soggetti tra università e partner industriali. Nei prossimi anni, il gruppo di ricerca del prof. Yan farà lo stesso per altri progetti e, nel mentre, ci stiamo mettendo in contatto con diversi partner accademici e industriali. La settimana scorsa ho mandato 24 email ad aziende europee, di cui 14 italiane. Nessuna delle italiane mi ha risposto… a differenza di tutte le restanti tedesche, francesi e inglesi. Credo che il problema sia culturale e la cooperazione o la collaborazione vengano viste più come una perdita di tempo o una minaccia di perdere il know-how, piuttosto che come una risorsa. Credo, inoltre, ci sia una mancata conoscenza sulle possibilità che la Comunità Europea dà alle aziende, soprattutto di piccola e media grandezza. Possibilità che, purtroppo, possono essere colte solo se le aziende si consorziano tra di loro e con le università.
ANNAMARIA BARTOLINI