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Primo maggio. Che cosa celebriamo?

Che cosa significa oggi celebrare il lavoro? Che cosa si festeggia e per cosa si manifesta? Per anni il tema di fondo è stato la sicurezza, nella doppia accezione di protezione fisica e di stabilità. Abbiamo pensato per decenni che il modo migliore di difendere il lavoro fosse quello di proteggerlo dai pericoli. Il risultato è che abbiamo fior di ingegneri capaci di scrivere a memoria piani di sicurezza (se ne trovano comunque di belli e pronti a poco prezzo sul web) e pochi muratori in grado di tirare su un muro dritto. Ci siamo concentrati sulle forme e sulle condizioni, sui contratti e sui dispositivi di protezione individuale, trascurando il contenuto dell’attività lavorativa: il mestiere, la competenza, la professionalità e quello che ne sta a fondamento, il talento, l’applicazione, l’esperienza. Non ci siamo domandati come rendere più efficace l’insegnamento, ma come stabilizzare gli insegnanti precari. Non ci siamo chiesti come aiutare i giovani a consolidare le proprie attitudini, ma solo come innalzare le loro attese. Abbiamo riso del senso di abnegazione dei giapponesi, che hanno fondato sull’idea di responsabilità individuale modelli di qualità industriale insuperati, abbiamo deriso l’aggressiva umiltà dei cinesi che giravano il mondo ad aprire ristoranti e scopiazzavano ogni cosa rendendola più semplice ed economica. Abbiamo permesso che un crescente spread etico erodesse la nostra capacità produttiva e con essa la chance di competere sul mercato internazionale. Ci siamo illusi che l’italianità fosse un valore aggiunto inesauribile, come se qualcosa ci fosse dovuto per la sola ragione di poggiare i piedi su questo lembo di terra che si protende nel Mediterraneo. Nel frattempo, senza che nemmeno ce ne accorgessimo, ci sono venute a mancare perfino le categorie per leggere i mutamenti della realtà: chi sono gli autisti privati che girano per le città chiamati dagli smartphone e pagati tanto al chilometro da una emergente multinazionale? Imprenditori? Lavoratori autonomi? Un nuovo proletariato sfruttato da una nuova forma di imprenditoria che è “social” solo di nome?
Che cosa festeggiamo dunque oggi? Che cosa abbiamo da celebrare? Io credo che sia il momento di fare un punto e ripartire dall’etica del lavoro, dal senso del compito, dallo spirito di collaborazione nella leale competizione, da una sana ambizione fondata sull’impegno e sulla perseveranza. Dobbiamo ridare un contenuto alla parola lavoro. Dobbiamo restituirle la dignità primaria, che è la capacità di cambiare in meglio la realtà, di ordinarla a una vita più facile, più lunga, più piena. Per anni abbiamo scritto “diritto al lavoro”, ma intendevamo diritto a uno stipendio, al più a un posto di lavoro. Dobbiamo invece ripartire dal diritto-dovere di ogni uomo e di ogni donna di dare il proprio contributo di ingegno, opera e fatica, ciascuno secondo le proprie attitudini, garantendo a tutti il giusto e comunque il necessario. Celebriamo questo. Nella speranza di riuscire a viverlo.

VILLELMO BARTOLINI

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